La relazione Dickie-Marge era esattamente come l'aveva intuita a prima vista, si confermò Tom. Marge era molto più attratta da Dickie di quanto lui fosse attratto da lei.

A ogni modo Tom tenne Dickie occupato. Aveva un sacco di storielle divertenti da raccontargli su conoscenze comuni di New York. Alcune di queste erano vere, altre completamente inventate. Uscivano in barca a vela tutti i giorni. Della partenza di Tom non si parlò più. Era evidente che a Dickie piaceva stare in sua compagnia. Tom sapeva quando era il momento di togliersi di torno, quando Dickie aveva voglia di dipingere, ed era sempre disponibile a lasciar perdere quello che stava facendo per andare a fare un giro in barca o una passeggiata con Dickie, o semplicemente per starsene tranquillamente seduti a chiacchierare. Inoltre sembrava che a Dickie facesse piacere che Tom avesse preso tanto sul serio lo studio dell'italiano. In effetti passava almeno due ore al giorno sui libri di grammatica e di conversazione.

Tom scrisse una lettera al signor Greenleaf annunciandogli che sarebbe stato ospite di Dickie per qualche giorno e che il figlio aveva parlato di fare una visita a casa durante l'inverno, non era da escludersi che riuscisse a convincerlo a stare più a lungo. Questa lettera era molto più convincente della precedente, nella quale aveva dovuto dire di essere alloggiato in un albergo a Mongibello. Scrisse poi che quando il denaro fosse terminato avrebbe cercato un lavoro, magari in uno dei due alberghi del paese; osservazione casuale che aveva il duplice scopo di ricordare che prima o poi i seicento dollari potevano anche terminare ma che lui era un giovanotto pronto a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Tom era ansioso di fare la stessa impressione su Dickie, per cui gli diede la lettera da leggere prima di chiuderla.

Passò così un'altra settimana di tempo splendido e di giornate altrettanto splendide e pigre nelle quali lo sforzo maggiore di Tom, dal punto di vista fisico, consistette nell'arrampicarsi ogni pomeriggio su per la ripida scalinata di pietra per rientrare dalla spiaggia, e dal punto di vista mentale nel cercare di far conversazione con Fausto, un giovane di ventitré anni che Dickie aveva scovato in paese e che dava lezioni di italiano a Tom tre volte alla settimana.

Andarono a Capri con la barca a vela di Dickie. L'isola, abbastanza distante, non era visibile da Mongibello. Tom era pieno di entusiasmo e aspettative ma Dickie era di uno dei suoi umori tetri e rifiutò di lasciarsi coinvolgere dal piacere della gita. Litigò con il guardiano del molo quando attraccò col Pipistrello e rifiutò di addentrarsi nel dedalo di viuzze incantevoli e invitanti che partivano in tutte le direzioni dalla piazza principale. Rimasero seduti a un tavolino in piazza bevendo Fernet Branca. Dickie insistette poi per rimettersi subito in viaggio, dato che stava calando l'oscurità, rifiutando la proposta di Tom di pagare il conto dell'albergo in caso avesse voglia di passare la notte lì. A Tom non restò che sperare di tornare di nuovo a Capri e cancellare dal calendario quel giorno nato male.

Ricevette una lettera dal signor Greenleaf, che aveva incrociato la sua, nella quale l'anziano signore insisteva perché il figlio tornasse presto a casa, augurava fortuna a Tom e chiedeva di scrivergli subito sull'andamento delle cose. Di nuovo, con gran senso del dovere, Tom prese la penna e rispose. La lettera di Greenleaf aveva un tono così formale, come se stesse parlando della spedizione di una partita di accessori navali, che a Tom venne naturale rispondere con lo stesso stile. Tom era appena brillo quando scrisse. Infatti aveva pranzato da poco e per loro ormai era diventata una consuetudine bere abbondantemente creandosi un delizioso stato di torpore che poteva facilmente essere superato con un paio di caffè e una breve passeggiata, o prolungato con un altro bicchiere di vino sorseggiato senza interrompere le pigre attività della routine pomeridiana. Tom si divertì a instillare fra le righe un'ombra di speranza. Difatti scrisse, con il medesimo stile formale del signor Greenleaf:

 

...Se non vado errato, Richard comincia a tentennare nel suo proposito di trascorrere un altro inverno qui. Come le ho già promesso, farò tutto quanto in mio potere per dissuaderlo da tale progetto e col tempo, per quanto non sia da escludersi che si debba arrivare a Natale, potrei persino riuscire a convincerlo a restare definitivamente negli Stati Uniti, quando deciderà di venire per la preannunciata breve visita.

 

Nello scrivere quelle parole Tom non poté trattenere un sorriso, dato che lui e Dickie stavano progettando per quell'inverno un giro per le isole greche e Dickie aveva abbandonato l'idea di tornare a casa, persino per una breve visita, a meno che sua madre non si fosse aggravata improvvisamente. Avevano anche progettato di passare i mesi di gennaio e febbraio, i peggiori per Mongibello, a Majorca. Marge non sarebbe andata con loro, Tom ne era certo. Sia lui che Dickie la escludevano regolarmente dai loro programmi di viaggio quando ne parlavano, anche se Dickie aveva commesso l'errore di lasciarsi scappare con la ragazza che avevano intenzione di farsi una crociera da qualche parte. Dickie era così dannatamente aperto e trasparente! Così, per quanto Tom fosse certo che Dickie non avesse nessuna intenzione di cedere rispetto alla decisione di andare loro due soli, adesso l'amico era insolitamente premuroso e attento nei riguardi della ragazza, proprio perché sapeva che si sarebbe sentita sola e che non era molto gentile da parte loro non chiederle di unirsi a loro. Sia Dickie che Tom cercarono di rappezzare la cosa raccontandole che avrebbero viaggiato nel modo più economico possibile, su traghetti da carico da un'isola all'altra, dormendo all'addiaccio o nelle case dei contadini e dei pescatori. Non era certo un modo di viaggiare adatto per una ragazza! Ma Marge era evidentemente ferita e Dickie non poteva fare a meno di cercare di mettersi a posto la coscienza invitandola più spesso del solito a restare con loro a pranzo e a cena. A volte, mentre risalivano dalla spiaggia, Dickie prendeva la mano di Marge. Dopo pochi secondi lei se ne liberava ma l'espressione, al contrario, palesava la sua voglia che lui le impedisse quel gesto.

Quando le chiesero di andare con loro a Ercolano la ragazza rifiutò.

«È meglio che resti a casa. Andate voi due, ragazzi!» esclamò con un sorriso coraggioso.

«Insomma, se non vuole non vuole, non ti pare?» disse Tom a Dickie e scomparve discretamente in casa, in modo da lasciare ai due la possibilità di discutere a tu per tu, se ne avevano voglia.

Tom sedette sul largo davanzale della finestra dello studio di Dickie e fissò il mare, con le scure braccia conserte. Amava contemplare il mare blu e pensare a lui e Dickie che se ne andavano ovunque gli veniva in mente, con la barca. Tangeri, Sofia, Sebastopoli... Prima che i soldi fossero finiti, pensò Tom, Dickie si sarebbe talmente affezionato a lui che avrebbe dato per scontato di continuare a vivere insieme. Lui e Dickie potevano cavarsela facilmente con la rendita mensile di cinquecento dollari di Dickie. Dalla terrazza gli giunsero la voce implorante di Dickie e secche risposte a monosillabi di Marge. Poi udì lo stridio del cancello. Marge se ne era andata. Non avrebbe pranzato con loro. Tom si lasciò scivolare giù dal davanzale e raggiunse Dickie sulla terrazza.

«Che succede, era seccata per qualcosa di particolare?» chiese Tom.

«No. Immagino che si senta esclusa.»

«Non si può dire che non abbiamo cercato di coinvolgerla, invece.»

«Non si tratta solo di questo.» Dickie camminava pensosamente avanti e indietro. «Adesso dice che non vuole neppure venire a Cortina con me.»

«Oh, forse cambierà idea, da qui a dicembre.»

«Ne dubito.»

Tom immaginò che il motivo fosse che anche lui sarebbe andato a Cortina. Dickie l'aveva invitato la settimana prima. Al loro rientro dalla gita a Roma, Freddie Miles non c'era più; era dovuto partire improvvisamente per Londra, aveva detto Marge. Ma Dickie aveva annunciato che avrebbe scritto a Freddie per fargli sapere che portava con sé un amico. «Vuoi che me ne vada, Dickie?» chiese Tom, sicuro del contrario. «Ho l'impressione di stare interferendo fra te e Marge.»

«Certo che no! Interferendo in che cosa?»

«Insomma, dal suo punto di vista...»

«Niente affatto. È solo che in fondo le devo qualcosa, e negli ultimi tempi non sono stato molto gentile con lei. Anzi, direi che non lo siamo stati, nessuno dei due.»

Tom sapeva che Dickie intendeva che lui e Marge si erano tenuti compagnia durante il lungo e tedioso inverno, quando si erano trovati a essere gli unici due americani del paese, per cui era ingiusto che lui adesso la trascurasse solo perché era arrivato qualcun altro. «E se le parlassi io, per il viaggio a Cortina?» propose Tom.

«Allora possiamo essere sicuri che non verrà,» ribatté Dickie conciso. E lo lasciò solo.

Dall'interno della casa Tom lo sentì dire a Ermelinda di aspettare a preparare il pranzo perché non aveva ancora fame. Per quanto parlasse italiano Tom lo udì distintamente dire di aspettare perché «lui» non aveva ancora fame, in un tono da padrone di casa che non guarda in faccia a nessuno. Quindi tornò di nuovo sulla terrazza riparando l'accendino dal vento mentre cercava di accendersi la sigaretta. Dickie aveva un bell'accendino d'argento che però non funzionava se c'era il minimo alito di vento. Tom, allora, tirò fuori il suo brutto accendino, brutto ed efficiente come un attrezzo militare, e lo aiutò ad accendersi la sigaretta. Tom si trattenne dall'offrirgli da bere. Dopotutto questa non era casa sua, anche se in fondo era stato lui a comprare le tre bottiglie di Gilbey's che adesso erano in cucina.

«Sono le due passate,» gli disse Tom. «Hai voglia di farti un giretto fino all'ufficio postale?» A volte Luigi apriva l'ufficio alle due e mezzo, a volte, invece, aspettava fino alle quattro e non era possibile fare nessuna previsione.

Camminarono in silenzio. Che cosa aveva potuto dire Marge di lui, si chiese Tom. Il peso improvviso del senso di colpa gli imperlò la fronte di sudore, era un senso di colpa indefinito eppure opprimente. Come se Marge avesse detto a Dickie che era colpevole di furto o di qualche altro misfatto vergognoso. Dickie non si sarebbe comportato a quel modo solo perché Marge era stata fredda con lui, pensò Tom. Dickie camminava con un'andatura dinoccolata e agile con le ginocchia un po' in fuori che inconsciamente aveva adottato anche Tom. Adesso, però, il mento di Dickie era ostinatamente affondato nel collo e le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni corti. Uscì dal suo mutismo soltanto per salutare Luigi e per ringraziarlo della lettera che aveva custodito per lui. Tom non ricevette posta. La lettera di Dickie veniva dalla banca di Napoli, conteneva un modulo nel quale Tom vide, dattiloscritta in un apposito spazio bianco, la cifra di cinquecento dollari. Dickie cacciò il modulo con aria noncurante nella tasca e gettò la busta nel cestino della carta straccia. Era l'avviso, immaginò Tom, che la rimessa mensile di Dickie era arrivata alla banca napoletana. Dickie gli aveva confidato che i suoi fiduciari americani avevano l'indicazione di rimettergli il denaro alla banca a Napoli. Scesero giù per la collina e Tom capì che sarebbero risaliti su per la strada principale che correva intorno a una roccia gigantesca dall'altra parte del paese, come avevano già fatto altre volte. Invece Dickie si fermò davanti ai gradini che portavano alla casa di Marge.

«Faccio un salto da Marge,» annunciò Dickie. «Non ci metterò molto, ma è inutile che mi aspetti.»

«Va bene,» convenne Tom sentendosi improvvisamente triste e abbandonato. Seguì con lo sguardo Dickie mentre si arrampicava su per gli scalini intagliati nella roccia, quindi si girò bruscamente e si avviò verso casa.

Circa a metà strada si fermò, colto dall'impulso repentino di scendere da Giorgio per bere qualcosa, eppure i martini che preparavano da Giorgio erano terribili. Gli venne l'insana voglia di andare fino a casa di Marge e, con il pretesto di scusarsi con lei, sfogare la sua rabbia sorprendendoli e irritandoli. Improvvisamente ebbe la certezza che, proprio in quel momento, Dickie stava abbracciandola o, quanto meno, toccandola; aveva bisogno di vederlo con i suoi occhi anche se il solo pensiero lo faceva fremere di orrore. Si girò e si avviò in direzione della casa di Marge. Chiuse con cura il cancello dietro di sé, per quanto la casa fosse talmente in alto che difficilmente avrebbero potuto sentirlo da lassù, quindi salì i gradini a due a due. Arrivato in cima rallentò l'andatura. Avrebbe detto: «Senti, Marge, sono terribilmente spiacente di aver causato tutta questa tensione. Però oggi desideravamo sul serio che tu venissi con noi. Anch'io lo desidero, credimi!»

Tom si fermò alla vista della finestra di Marge: Dickie le aveva circondato la vita con il braccio e la stava baciando. Piccoli baci delicati sulla guancia, mentre le sorrideva. I due erano a pochi metri da lui ma la stanza era in penombra rispetto alla luce violenta dell'esterno e Tom faceva fatica a vedere all'interno. Ora il viso di Marge era sollevato e proteso verso quello di Dickie, con un'espressione assolutamente rapita. Ciò che disgustò maggiormente Tom fu la consapevolezza che Dickie stava fingendo, che stava usando quel mezzo ovvio e volgare per tenersi a buon mercato l'amicizia della ragazza. Tom provò un moto di repulsione per la mole del sedere di lei, fasciato nella gonna campagnola, che sbocciava voluminoso sotto il braccio di Dickie intorno alla vita. E Dickie... Questo Tom non se lo sarebbe mai aspettato da Dickie!

Tom si girò e si precipitò giù per la scaletta frenando la voglia di urlare. Sbatté il cancello dietro di sé e corse senza fermarsi fino a casa. Arrivò che era senza fiato e dovette appoggiarsi al muretto di cinta che delimitava il cancello. Quindi sedette sul divano nello studio di Dickie per alcuni minuti, con la mente spersa nel vuoto. Quel bacio non era di sicuro il primo bacio che i due si scambiavano! Andò verso il cavalletto di Dickie, evitando di posare lo sguardo sul brutto quadro al quale stava lavorando, prese il raschietto sporco di colore accanto alla tavolozza e lo gettò con rabbia fuori della finestra dove lo vide descrivere un arco e scomparire giù, verso il mare. Poi, quasi con metodo, prese altri raschietti, pennelli, spatole, pezzi di carboncino e di colori a pastello e li scagliò uno dopo l'altro in tutte le direzioni o fuori della finestra. Aveva la strana sensazione che solo il corpo gli sfuggiva al controllo, mentre la mente restava lucida e calma. Corse fuori sulla terrazza, con l'impulso di balzare in piedi sul parapetto e fare una danza selvaggia, oppure di stare in bilico sulla testa, ma il vuoto oltre la ringhiera lo trattenne.

Salì in camera di Dickie e camminò avanti e indietro come un lupo in gabbia per alcuni minuti. Si chiedeva se sarebbe rientrato presto. Oppure aveva intenzione di restare laggiù per tutto il pomeriggio? Non aveva mica intenzione di portarsela davvero a letto? Spalancò l'armadio di Dickie e guardò nell'interno. Scorse un abito nuovo, di flanella grigia accuratamente stirato, che non aveva mai visto addosso a Dickie. Lo tirò fuori. Si tolse gli shorts e infilò i pantaloni lunghi. Poi si mise un paio di scarpe di Dickie, aprì un cassetto del comò e tirò fuori una camicia a righine bianche e celesti.

Si scelse una cravatta di seta blu e fece il nodo con cura. L'abito gli stava a pennello. Si pettinò facendosi la riga più laterale, come la portava Dickie.

«Marge, devi capire che io non ti amo,» esclamò Tom davanti allo specchio imitando la voce di Dickie e sottolineando ogni parola con enfasi, con quel piccolo gorgoglio finale che poteva essere gradevole o sgradevole, intimo o scostante, a seconda degli umori di Dickie e delle circostanze. «Adesso basta, Marge!» Si girò di scatto fingendo di afferrare il collo della ragazza. Poi la scosse e la piegò all'indietro tenendola mentre le gambe le cedevano e lentamente la ragazza si accasciava al suolo. Infine la lasciò a terra inerte. Ansimava. Si asciugò la fronte con lo stesso gesto di Dickie, cercò il fazzoletto e, non trovandolo, ne prese uno dal cassetto, poi tornò davanti allo specchio. Persino la bocca semiaperta era simile a quella di Dickie quando era senza fiato dopo una lunga nuotata, con i denti inferiori lievemente scoperti. «Sai perché ho dovuto farlo,» disse senza fiato rivolto a Marge, senza perdere di vista la sua immagine allo specchio. «Sei un ostacolo fra me e Tom... No, niente del genere. Però è vero che fra noi c'è un forte legame!»

Si girò, scavalcò il corpo immaginario steso al suolo e andò furtivamente verso la finestra. Oltre la curva della strada vedeva parte degli scalini che salivano verso la casa di Marge. Dickie non era né sulle scale né nel tratto di strada visibile dal suo punto di osservazione. Forse erano a letto insieme, pensò Tom sentendo un'ondata di disgusto serrargli la gola. Si figurò la scena. Goffa, sgraziata e del tutto insoddisfacente per Dickie. Mentre Marge se la godeva tutta. A lei sarebbe piaciuta qualunque cosa, anche essere torturata da Dickie! Di nuovo Tom si diresse verso l'armadio e prese un cappello dallo scaffale superiore. Era un cappelluccio tirolese grigio, con una penna bianca e verde sulla fascia. Se lo cacciò in testa sulle ventitré. Si meravigliò di quanto somigliasse a Dickie con un cappello in testa. Sul serio, l'unica cosa diversa erano i capelli più scuri. Invece il naso, a grandi linee, la mascella affilata e le sopracciglia, se solo le aggrottava nel modo giusto, erano...

«Cosa diavolo stai facendo?»

Tom si girò di soprassalto. Sulla porta c'era Dickie. Si rese conto che nel momento in cui aveva spiato dalla finestra Dickie doveva essere giù al cancello. «Oh, facevo passare il tempo, giocavo...» rispose Tom con il tono di circostanza che usava nei momenti di imbarazzo. «Mi dispiace, Dickie.»

La bocca di Dickie si aprì per parlare, poi si richiuse, come se la rabbia gli strozzasse le parole prima che arrivassero alla gola. Fece un passo avanti nella stanza.

«Senti, Dickie, scusami davvero se...»

Il fragore della porta che sbatteva lo fece ammutolire. Con aria torva Dickie cominciò a sbottonarsi la camicia, ignorando Tom. Questa era camera sua dopo tutto e cosa ci faceva Tom lì dentro? Tom rimase raggelato per il terrore.

«Vorrei che ti togliessi quegli abiti di dosso,» disse seccamente Dickie.

Tom cominciò a spogliarsi, con le dita impacciate per l'umiliazione e la sorpresa dato che fino a quel momento era stato Dickie stesso a esortarlo a indossare i suoi abiti. Ora non l'avrebbe più fatto.

Dickie lanciò un'occhiata ai piedi di Tom. «Anche le scarpe? Ma sei diventato matto?»

«Ma cosa dici...» Tom cercò di controllarsi mentre riappendeva il vestito nell'armadio, quindi chiese: «Allora, come è andata con Marge?»

«Fra me e Marge va tutto benissimo,» tagliò corto Dickie, chiudendo definitivamente a Tom l'argomento. «E c'è un'altra cosa che vorrei dirti, senza peli sulla lingua,» continuò fissando Tom negli occhi. «Io non sono un omosessuale. Non so se ti sei fatto questa idea, oppure no, ma sia ben chiaro che non lo sono!»

«Omosessuale?» Tom sorrise debolmente. «Non mi è mai passato per la testa che tu sia omosessuale.»

Dickie cominciò a dire qualcos'altro ma si bloccò. Prese fiato, mentre le costole affioravano nel torace abbronzato. «Allora sappi che Marge è convinta che tu, invece, lo sia.»

«Perché mai?» Tom sentì che tutto il sangue gli scorreva via dalle vene. Tolse debolmente la seconda scarpa e le ripose entrambe con cura nell'armadio. «Perché mai dovrebbe esserne convinta? Cosa ho fatto per farglielo credere?» Si sentiva debole. Nessuno glielo aveva mai detto così chiaramente in faccia, non in quel modo comunque.

«È per come ti comporti,» proseguì Dickie quasi borbottando. Quindi lo piantò in asso.

Tom si affrettò a infilarsi i suoi shorts. Per quanto avesse le mutande, aveva cercato di ripararsi dietro la porta dell'armadio. Solo perché Dickie gli mostrava simpatia, pensò Tom, Marge ne aveva approfittato per insinuare le sue sporche calunnie; e Dickie aveva avuto il coraggio di affrontarla a viso aperto e di negare!

Scese al piano di sotto e trovò Dickie intento a prepararsi un cocktail al bar della terrazza. «Dickie, vorrei chiarire questa storia,» cominciò Tom. «Neanch'io sono omosessuale, e non mi va che ci sia qualcuno che lo pensi.»

«Va bene,» bofonchiò Dickie.

Il tono gli ricordò quello usato quando aveva chiesto a Dickie se conosceva certe persone a New York. Alcune di quelle persone erano omosessuali e Tom non poteva togliersi dalla testa che Dickie avesse negato deliberatamente di averle mai conosciute quando invece era vero il contrario. E va bene! Adesso, però, chi è che stava facendo una montagna da un sassolino? Dickie, non lui! Tom rimase muto mentre la sua mente si perdeva in una moltitudine di cose che avrebbe potuto definire amare o concilianti, amichevoli o ostili. La sua mente corse a certi gruppi di persone che aveva conosciuto e frequentato a New York. Anche se alla fine le aveva rifiutate, adesso rimpiangeva di averle mai conosciute. Loro lo avevano accettato perché in fondo era divertente; lui, però, non aveva mai avuto niente a che fare con loro. Quando un paio di queste persone gli aveva fatto delle proposte esplicite le aveva respinte recisamente. Eppure, ricordava, più tardi aveva cercato di farsi perdonare offrendo loro da bere, portandole a casa in taxi anche quando lo costringevano ad allungare il percorso, pur di non essere rifiutato del tutto. Che cretino era stato! Gli tornò alla mente quel momento umiliante quando ViC Simmons, a un party, aveva esclamato in tono insofferente: «Per l'amor del cielo, Tommie, piantala!» quando, per l'ennesima volta, aveva detto: «Non riesco a decidere se preferisco gli uomini o le donne, così sto pensando di lasciar perdere entrambi!» Tom fingeva di essere in cura da uno psicoanalista perché tutti gli altri lo erano e aveva l'abitudine di snocciolare una storiella divertente dopo l'altra sulle sue sedute dall'analista per far ridere la gente. Quella battuta circa i suoi dubbi sugli uomini o sulle donne, e l'idea di lasciarli perdere entrambi, aveva sempre avuto grande successo, forse per il modo in cui la diceva; finché quella sera Vic gli aveva detto di piantarla con quel tono così offensivo. Da allora Tom non l'aveva più tirata fuori, anzi, non aveva neppure più parlato delle sue sedute dall'analista. A pensarci bene c'era molta verità in quella battuta, decise Tom. Più passava il tempo più si convinceva di essere una delle persone più limpide e cristalline che conoscesse. Questa era la vera ironia dell'incidente con Dickie.

«Mi sento come se fossi...» cominciò Tom, ma Dickie non lo ascoltava. Gli girò le spalle con aria scostante, si prese il suo cocktail e se lo portò in fondo alla terrazza. Tom fece qualche passo esitante verso di lui, chiedendosi se Dickie lo avrebbe scaraventato giù dalla terrazza o se si sarebbe limitato a voltargli le spalle e a dirgli di andare all'inferno, fuori di casa sua. A bassa voce Tom chiese: «Dickie, sei innamorato di Marge?»

«No, ma mi fa pena. Le voglio bene e lei è stata molto gentile con me. Abbiamo passato dei bei momenti insieme. Sembra che tu non riesca a rendertene conto.»

«Lo capisco, invece. È proprio quello che ho pensato quando vi ho visto la prima volta. Cioè che per quanto riguardava te era un rapporto di tipo platonico, mentre lei, invece, è innamorata di te.»

«Lo è. A volte si fanno delle pazzie per cercare di non ferire chi ti ama, sai.»

«Naturalmente.» Esitò di nuovo, cercando con cura le parole. Era ancora in uno stato di grande apprensione per quanto fosse ormai evidente che l'ira di Dickie cominciasse a sbollire. Riconquistando il controllo di sé Tom continuò: «Immagino che se foste stati a New York non vi sareste visti così spesso, magari non vi sareste visti affatto. Ma questo paese può essere così solitario...»

«Proprio così. Non sono mai andato a letto con lei, e non intendo farlo; intendo però salvare la nostra amicizia.»

«Ho fatto qualcosa per impedirtelo, per caso? Te l'ho già detto, Dickie, preferisco andarmene piuttosto che interferire nell'amicizia fra te e Marge.»

Dickie gli lanciò un'occhiata penetrante. «No, non hai fatto nulla di specifico. Però è evidente che non ti va la sua compagnia. Ogni volta che ti sforzi di essere gentile con lei lo rendi talmente evidente, forzato.»

«Mi dispiace,» replicò Tom in tono contrito. Gli dispiaceva di non essersi sforzato di più, di aver recitato così male la sua parte quando era in grado di fare di meglio.

«Va bene, adesso lasciamo perdere. Io e Marge abbiamo fatto la pace,» esclamò Dickie in tono reciso, poi si girò e fissò il mare.

Tom andò in cucina a scaldarsi un po' di caffè. Non voleva usare la fantastica macchinetta per il caffè espresso dato che Dickie ci teneva molto e pretendeva di essere l'unico a saperla usare. Era meglio che se ne andasse in camera a studiare un po' prima che arrivasse Fausto, decise Tom. Questo non era il momento giusto per appianare le cose con Dickie. Dickie era orgoglioso. Se ne sarebbe stato imbronciato e per conto suo per buona parte del pomeriggio, poi verso le cinque, dopo aver dipinto un po', sarebbe spuntato e si sarebbe comportato come se l'episodio dei vestiti non fosse mai successo. Di una cosa Tom era certo: Dickie era felice che lui fosse lì. In fondo era stanco di vivere per conto suo, e anche stanco di Marge. Gli rimanevano ancora trecento dollari del denaro del signor Greenleaf e aveva deciso che lo avrebbe usato con Dickie per fare follie a Parigi. Senza Marge. Dickie era rimasto di sasso quando gli aveva confidato di aver visto Parigi soltanto dalla vetrata del bar della stazione.

Mentre aspettava che il caffè si scaldasse Tom sistemò il cibo che avrebbe dovuto rappresentare il loro pranzo. Mise un paio di casseruole piene di cibo in due recipienti più grandi colmi d'acqua per tener lontane le formiche. C'erano anche il cartoccio di burro fresco, le uova e il sacchetto con quattro panini che Ermelinda aveva portato per la colazione del mattino seguente. Dovevano comperare piccole quantità di cibo tutti i giorni dato che non avevano il frigorifero. Dickie avrebbe voluto comperarsene uno con i soldi del padre. Ne aveva già accennato un paio di volte. Tom sperava che cambiasse idea dato che l'acquisto del frigorifero avrebbe tagliato notevolmente la somma destinata ai viaggi; d'altra parte i cinquecento dollari che Dickie riceveva tutti i mesi erano già tutti impegnati per spese fisse. Dickie andava molto cauto con i soldi eppure giù al molo e nei caffè del paese dava mance generose a destra e a sinistra, lasciava un biglietto da cinquecento lire a ogni straccione che gli andava vicino.

Per le cinque Dickie era tornato del suo solito umore. Aveva passato un buon pomeriggio a dipingere, pensò Tom, dato che lo aveva sentito fischiettare nello studio per un'ora buona. Dickie lo raggiunse sulla terrazza dove Tom stava compitando sulla grammatica italiana e gli corresse la pronuncia di alcune parole.

«Non dicono sempre 'voglio' in modo così scandito,» annunciò pedantemente. «Spesso dicono 'voio'. Per esempio, dicono: 'Te voio presentà la mia amica Marge', capito?» Nel parlare agitava le mani, come era sua consuetudine ogni volta che si esprimeva in italiano. Erano gesti aggraziati, come se di fatto stesse dirigendo un'orchestra. «Sarà meglio che tu ascolti di più Fausto e studi meno la grammatica. In fondo io l'italiano l'ho imparato a orecchio,» concluse con un sorriso prima di scomparire in un sentierino del giardino, proprio mentre Fausto varcava il cancello.

Tom ascoltò attentamente il loro scambio di battute allegre, sforzandosi di capire quello che si dicevano.

Fausto arrivò sulla terrazza con il suo largo sorriso, si abbatté su una poltrona di vimini e appoggiò i piedi sulla balaustra. Aveva sempre il viso o sorridente o aggrottato, ed era in grado di cambiare espressione in un batter d'occhio. Era una delle poche persone del paese, gli aveva detto Dickie, che non aveva un accento meridionale. Fausto era di Milano e si trovava a Mongibello per far visita a una zia. Arrivava puntuale e preciso tre volte alla settimana, fra le cinque e le cinque e mezzo, e restava con lui un'oretta a chiacchierare sulla terrazza bevendo vino o caffè. Tom faceva del suo meglio per ricordare tutto quello che Fausto gli raccontava sulla natura delle rocce, l'acqua, la politica (Fausto era comunista, iscritto al partito, ed era fiero di mostrare la tessera agli americani perché, diceva Dickie, lo divertiva l'aria attonita che questi assumevano nel vederla), la frenetica vita sessuale, poco edificante, di alcuni abitanti del paese. A volte Fausto aveva difficoltà a trovare argomenti di conversazione, in quei casi guardava Tom negli occhi e scoppiava a ridere. Tom, però, stava facendo passi da gigante. In fondo era l'unica cosa che avesse studiato che gli piaceva e alla quale sentiva di potersi applicare con metodo e perseveranza. Tom voleva che il suo italiano diventasse fluente come quello di Dickie ed era convinto di farcela entro un mese, se solo avesse continuato ad applicarsi con impegno.

 

11

 

Tom attraversò con passo baldanzoso la terrazza ed entrò nello studio di Dickie. «Ti va di andare a Parigi in una bara?» chiese.

«Che cosa?» Dickie sollevò lo sguardo dai suoi acquerelli.

«Ho chiacchierato con un italiano da Giorgio. Potremmo partire da Trieste, viaggeremmo nelle bare in carro funebre scortato da alcuni francesi, e ci darebbero anche centomila lire a testa. Ho idea che si tratti di droga.»

«Droga nelle bare? Non è un po' vecchia come trovata?»

«Abbiamo chiacchierato in italiano, per cui non ho afferrato proprio tutto nei minimi particolari. Però sono sicuro che ha parlato di tre bare; nella terza, forse, ci sarà un vero cadavere. Comunque a noi toccherebbe il malloppo più il viaggio e il divertimento.» Si vuotò le tasche dei pacchetti di Lucky Strike di contrabbando appena comprate per Dickie. «Allora, che ne dici?»

Sul viso di Dickie apparve uno strano sorriso, come se Dickie si stesse prendendo gioco di lui facendogli credere che ci cadeva, mentre al contrario non aveva la minima intenzione di caderci. «Parlo sul serio,» insistette Tom. «Sta cercando per davvero un paio di giovani disponibili e volenterosi. Pare che nelle bare ci saranno i corpi di persone morte in un incidente in Indocina. Gli accompagnatori francesi figureranno come parenti di uno o di tutti e tre.» Non era proprio quello che l'uomo gli aveva detto, ma era una buona approssimazione. E poi duecentomila lire erano quasi trecento dollari, dopo tutto, più che sufficienti per far bisboccia a Parigi. Dickie era ancora incerto circa la gita a Parigi.

Dickie gli lanciò un'occhiata penetrante, spense il mozzicone spiegazzato della Nazi.onale che stava fumando e aprì uno dei pacchetti di Lucky Strike. «Sei sicuro che il tizio con il quale hai parlato non fosse un po' fatto anche lui?»

«Sei così maledettamente cauto in questi giorni!» rise Tom. «Dov'è finito il tuo spirito d'avventura? Sembra che tu non mi creda neppure. Vieni giù con me e ti faccio vedere l'uomo di cui parlo. È lì che mi aspetta. Si chiama Carlo.»

Dickie non accennò a muoversi. «Chiunque abbia una proposta simile da fare si tiene per sé i particolari più importanti. Può anche darsi che riescano a trovare un paio di incoscienti che facciano il viaggio Trieste-Parigi; però anche così per me non ha senso.»

«Perché non vieni giù con me a parlargli, allora? Se non credi a me crederai a lui, per lo meno guardalo in faccia.»

«Certo,» e Dickie balzò in piedi. «Per centomila lire potrei anche farlo.» Chiuse il libro di poesie che stava aperto a faccia in giù sul bracciolo del divano e seguì Tom fuori della stanza. Marge aveva molti libri di poesia e negli ultimi tempi Dickie gliene prendeva spesso in prestito.

L'uomo era ancora al suo tavolo d'angolo da Giorgio quando entrarono nel locale. Tom gli sorrise e gli fece un cenno di saluto con il capo.

«Salve, Carlo. Posso sedermi?»

«Certo, certo,» annuì l'uomo indicando le sedie libere.

«Ti presento il mio amico,» proseguì Tom in italiano scolastico. «Vuole sapere se la storia del viaggio in treno è esatta.» Tom osservò lo sguardo indagatore di Carlo mentre passava Dickie accuratamente al vaglio. Tom non poté fare a meno di ammirare quegli occhi scuri, duri e spietati che non tradivano nessun sentimento, tranne una sorta di educata considerazione. In una frazione di secondo l'uomo valutò l'espressione di Dickie vagamente sorridente ma sospettosa, l'abbronzatura che non avrebbe potuto farsi se non in mesi e mesi di permanenza al sole mediterraneo, i suoi vestiti malandati ma di fattura italiana e gli anelli tipicamente americani.

Lentamente un sorriso si diffuse sulle labbra pallide e tirate dell'uomo, poi guardò Tom.

«Allora?» lo incalzò Tom impaziente.

L'uomo prese il suo bicchiere di martini rosso e bevve. «La faccenda è vera, ma non credo che il tuo amico sia l'uomo che fa per me.»

Tom lanciò un'occhiata a Dickie che stava osservando l'uomo con aria vigile e con lo stesso sorriso impassibile che improvvisamente colpì Tom per la sua arroganza. «Bene, per lo meno non ti ho raccontato storie, hai visto?»

«Mmm,» mugugnò Dickie senza smettere di fissare l'uomo come se fosse stato un animale raro che lo interessava molto e che sarebbe stato in grado di uccidere se solo lo avesse desiderato.

Dickie avrebbe potuto parlare senza difficoltà con l'uomo, ma si astenne dal pronunciare una sola parola. Solo tre settimane prima, pensò Tom, Dickie avrebbe accettato la sfida senza pensarci due volte. Era necessario che se ne stesse lì, con l'aria di una spia o di un poliziotto che aspetta solo i rinforzi per arrestare la sua vittima? «Allora,» chiese ancora Tom, «adesso mi credi, vero?»

«Circa il lavoro? E come faccio a saperlo?»

Tom guardò speranzoso l'italiano.

L'italiano scosse le spalle. «Non c'è bisogno di parlarne ancora, non ti pare?» chiese questi in italiano.

«Direi di no,» concluse Tom. Una furia cieca e inarrestabile gli stava montando dentro scuotendolo tutto. Era furioso contro Dickie. Contro Dickie che in quel momento ispezionava le unghie orlate di nero dell'uomo, il colletto unto della camicia, il brutto viso dal colorito olivastro che pur essendo stato rasato di fresco non doveva aver toccato l'acqua da un bel pezzo, cosicché era molto più chiaro nei punti dove prima era stato protetto dalla barba. Lo sguardo scuro dell'italiano era freddo ma amichevole, più forte di quello di Dickie. Tom si sentiva impotente. Era conscio di non essere in grado di esprimersi chiaramente in italiano. Però voleva parlare sia a Dickie che all'italiano.

«Niente, grazie, Berto,» disse Dickie con calma al cameriere che era venuto a prendere le ordinazioni. Poi, guardando Tom: «Andiamo, adesso?»

Tom balzò in piedi con tanta foga che la sedia si rovesciò dietro di lui. La rimise in piedi e si chinò per dire addio all'italiano. Sentiva di dovergli delle scuse, eppure non riusciva a spiccicare neppure un saluto convenzionale. L'italiano li salutò scuotendo la testa e sorridendo cordiale. Tom seguì le lunghe gambe di Dickie fasciate dai pantaloni bianchi fuori del locale.

Una volta fuori Tom riprese: «Volevo solo che tu constatassi che stavo dicendo la verità. Spero che adesso non avrai obiezioni.»

«Va bene, era la verità,» sorrise Dickie. «Ma che ti prende adesso?»

«Cosa ti prende a te, Dickie?» lo investì Tom.

«Quell'uomo è un tipo losco. È questo che vuoi farmi dire? Okay, lo è!»

«È proprio necessario che ti comporti con tanta boria? Ti ha fatto per caso qualcosa?»

«E cosa dovrei fare, secondo te? Dovrei cadere in ginocchio davanti a lui? Non è la prima volta che vedo un tipo losco. In paese ce ne sono a dozzine.» Le sopracciglia chiare di Dickie erano aggrottate. «Cosa diavolo ti prende, Tom? Non vorrai mica andargli dietro in quel progetto pazzesco? Vai, vai pure, se ti va!»

«Adesso non potrei più, neppure se lo volessi. Non dopo il tuo comportamento.»

Dickie si fermò in mezzo alla strada e lo guardò negli occhi. Stavano discutendo a voce talmente alta che alcune persone intorno a loro si fermarono per guardare la scena.

«Avrebbe potuto essere divertente,» proseguì Tom. «Non nel modo come l'hai presa tu, però. Soltanto un mese fa, quando siamo andati a Roma, avresti pensato che un'avventura simile era molto divertente.»

«Oh, no,» rispose Dickie scuotendo il capo. «Non credo proprio.»

Il senso di impotenza e di confusione quasi paralizzava Tom. E poi, tutta quella gente che li guardava. Si sforzò di continuare a camminare, prima a piccoli passi rigidi, finché non ebbe la certezza che Dickie gli stava andando dietro. Il sospetto e la perplessità erano ancora dipinti sul viso di Dickie e Tom sapeva che ciò era dovuto alla sua reazione. Tom avrebbe voluto spiegarsi. Avrebbe voluto infrangere quel muro che lo separava da Dickie in modo che questi potesse capire e che dividesse il suo stato d'animo con lui. Dickie doveva essersi sentito come si era sentito lui un mese prima. «È per il modo come ti sei comportato,» continuò Tom. «Non era affatto necessario che ti comportassi a quel modo. Quel tipo non ti aveva fatto nulla di male.»

«Aveva l'aspetto di un volgare imbroglione!» rincarò Dickie. «Per Dio, torna da lui se ti piace così tanto! Non devi mica fare per forza quello che faccio io!»

Tom si fermò di botto. Ebbe l'impulso di tornare indietro, non dall'italiano, ma tanto per piantare in asso Dickie. Poi, all'improvviso, la tensione cadde. I muscoli delle spalle cedettero indolenziti, e il respiro diventò affannoso. Avrebbe voluto dire almeno: «Va bene Dickie, lasciamo perdere,» per finirla lì, perché dimenticasse. Si sentiva la lingua impastata. Fissò gli occhi azzurri di Dickie ancora foschi per l'irritazione, le sopracciglia quasi bianche e scolorite dal sole e gli occhi, bianchi anch'essi, che brillavano vuoti. Non erano niente altro che piccoli pezzi gelatinosi azzurri con un puntino nero al centro, privi di significato, di profondità, senza nessun rapporto con lui. Si dice che attraverso gli occhi si veda l'anima, che negli occhi si legga l'amore, che attraverso gli occhi si possa scrutare nel profondo di un altro essere umano e scoprire cosa c'è veramente dentro di lui. Negli occhi di Dickie Tom non vide niente di più che se avesse guardato la superficie fredda e impassibile di uno specchio. Tom sentì una stretta dolorosa alla bocca dello stomaco e fu costretto a coprirsi il volto con le mani. Ebbe l'impressione che Dickie fosse stato strappato improvvisamente da lui. Non erano più amici, ora. Non si conoscevano più. Quel pensiero colpì Tom come una verità orribile: era vero e sarebbe stato così per sempre, ormai. Era vero per tutte le persone che aveva conosciuto in passato e per quelle che avrebbe conosciuto in futuro. Ognuna di queste sarebbe stata davanti a lui e lui sarebbe stato sempre perfettamente e inesorabilmente conscio che mai le avrebbe conosciute fino in fondo. Il peggio era che avrebbe sempre avuto l'illusione, che avrebbe sempre sperato, anche per un attimo fugace, di conoscerle davvero e di essere in totale armonia con loro. Per un attimo il colpo brutale di quella verità gli sembrò più di quanto potesse sopportare. Sentì che stava per avere una crisi, ebbe l'impressione di cadere a terra. Era troppo: quella terra straniera, la lingua estranea, il suo fallimento e il fatto che Dickie, ora, lo odiava. Si sentì circondato da ostilità e da estraneità. Poi sentì che Dickie gli strappava via la mano dagli occhi.

«Cosa diavolo ti prende?» chiese Dickie. «Per caso quel tizio ti ha fatto prendere una dose di qualcosa?»

«No.»

«Ne sei sicuro? Nel bicchiere, forse?»

«No.» Sentì le prime gocce di una pioggerellina serale colpirgli la nuca. In lontananza sentì il brontolio sordo di un tuono. Ostilità dappertutto, anche dal cielo. «Voglio morire,» disse Tom con voce flebile.

Dickie lo tirò per il braccio. Tom inciampò sul gradino di una porta. Adesso erano nel bar di fronte all'ufficio postale. Tom sentì che Dickie ordinava un brandy, specificando un brandy nazionale, come se lui non fosse stato degno di un vero cognac francese, pensò Tom. Tom lo bevve lentamente, sentendosi in bocca il sapore dolciastro, vagamente di medicinale. Ne prese tre, come una medicina in grado di rimetterlo in contatto con quella che in genere viene chiamata realtà: con l'odore della Nazionale accesa fra le dita di Dickie, con i nodi e le venature del legno del bancone del bar, con quella sensazione di peso opprimente allo stomaco come se qualcuno premesse proprio sopra l'ombelico, con l'angosciosa anticipazione della salita fino a casa, e con il lieve indolenzimento che avrebbe sentito nelle cosce per lo sforzo compiuto.

«Sto bene,» annunciò Tom con voce bassa e controllata. «Non so cosa mi sia preso. Deve avermi dato alla testa il caldo.» Rise debolmente. Ecco, quella era la realtà. Riderci sopra, rendere tutto ridicolo, annullare qualcosa che era stato più importante per lui di tutto quello che era avvenuto nelle ultime cinque settimane, da quando aveva incontrato Dickie, forse più importante di qualunque cosa in assoluto.

Dickie non fece commenti. Si mise la sigaretta fra le labbra, tirò fuori un paio di biglietti da cento lire dal portafogli di coccodrillo nero e li depose sul banco. Tom fu ferito da quel silenzio, ferito come un bambino che sa bene di essere di peso quando sta male, ma che si aspetta una parola gentile quando il peggio è passato. Dickie, però, era indifferente. Dickie gli aveva fatto bere quei brandy con la stessa freddezza con la quale li avrebbe offerti a un estraneo che si sentiva male ma che non aveva soldi per pagarseli. Di botto Tom pensò: Dickie non vuole che io vada a Cortina. Non era la prima volta che ci pensava. Adesso Marge aveva deciso di andare con lui. L'ultima volta che erano stati a Napoli Dickie e Marge avevano acquistato un termos formato gigante da portarsi dietro a Cortina. Non avevano chiesto a Tom se gli piaceva il termos o niente del genere. Si limitavano a escluderlo tacitamente e gradualmente dai preparativi per il viaggio. Tom capì che Dickie si aspettava che se ne andasse prima della loro partenza per Cortina. Solo un paio di settimane prima Dickie aveva detto che gli avrebbe mostrato alcune delle piste, sopra Cortina, segnate su una mappa della zona. L'altra sera Dickie aveva di nuovo consultato la mappa ma non ne aveva accennato a Tom.

«Pronto?» chiese Dickie.

Tom lo seguì come un cane bastonato fuori del locale.

«Se pensi di farcela ad andare a casa da solo, vorrei fare un salto da Marge,» gli disse Dickie strada facendo.

«Sto bene.»

«Ottimo.» Poi, mentre si allontanava gli gridò: «Perché non passi a ritirare la posta? Potrei dimenticarmene.»

Tom annuì. Andò all'ufficio postale. C'erano due lettere, una per lui dal padre di Dickie e un'altra per Dickie da qualcuno di New York che Tom non conosceva. Si fermò sulla soglia, aprì la lettera del signor Greenleaf, e spiegò rispettosamente il foglio dattiloscritto. Era una lettera sull'elegante carta intestata, verde pallido, della Burke-Greenleaf, Watercraft Inc. con il marchio a forma di timone proprio al centro.

 

10 novembre, 19..

Mio caro Tom,

in considerazione del fatto che si trova ormai con Dickie da oltre un mese e che non si intravedono segni di una possibile decisione di rientrare a casa, non posso che dedurne che la sua missione non ha avuto successo. Mi rendo conto che, certo con le migliori intenzioni, lei riferisce che Dickie sta vagliando la possibilità di tornare, ma francamente non vedo alcun segno di possibile rientro nella sua lettera del 26 ottobre. A essere sincero, ho l'impressione che sia, al contrario, più deciso che mai a restare dove si trova.

Vorrei che non dubitasse della stima e dell'apprezzamento che sia mia moglie che io stesso abbiamo nei riguardi degli sforzi da lei compiuti per nostro conto. Ritengo però inutile che lei si consideri in alcun modo vincolato a noi per il futuro. Spero che non si sia disturbato troppo per noi in questo mese, e mi auguro in tutta sincerità che questo viaggio sia stato foriero di momenti piacevoli malgrado il fallimento dell'obiettivo principale della spedizione.

Riceva, caro Tom, i migliori auguri e i più fervidi ringraziamenti da parte di mia moglie e mia.

Suo

H. R. Greenleaf

 

Era il colpo finale. Con il suo tono freddo, ancora più freddo dell'abituale tono professionale, dato che questo era un licenziamento nel quale aveva voluto inserire una nota di formale e ipocrita ringraziamento, il signor Greenleaf si sbarazzava di lui. Aveva fallito. «Spero che non si sia disturbato troppo per noi...» C'era per caso una nota di sarcasmo? Il signor Greenleaf non diceva neppure che gli avrebbe fatto piacere rivederlo al suo rientro in America.

Tom salì meccanicamente su per la collina. Si figurò Dickie a casa di Marge, mentre le raccontava la storia di Carlo e del bar e del suo bizzarro comportamento poco dopo in mezzo alla strada. Tom sapeva che Marge avrebbe esclamato: «Ma quando ti decidi a sbarazzarti di lui, Dickie?» Doveva tornare indietro a spiegare come si sentiva, si chiese, doveva costringerli ad ascoltarlo? Tom si girò e fissò l'imperscrutabile facciata quadrata della casa di Marge in cima alla collina, con le sue finestre scure e vuote. Il suo giubbotto di cotone era fradicio per la pioggia, cercò di proteggersi meglio tirando su il colletto. Poi riprese a camminare velocemente verso la casa di Dickie. Per lo meno, pensò con fierezza, non aveva tentato di estorcere altri soldi dalle tasche del signor Greenleaf. Eppure avrebbe potuto. Avrebbe potuto farlo, persino con l'aiuto di Dickie, se solo gliene avesse parlato nei momenti in cui era di buon umore. Chiunque altro ci avrebbe provato, pensò Tom, proprio chiunque. Ma lui no, e questo lo rendeva fiero di sé.

Restò immobile, in un angolo della terrazza, fissando la linea dell'orizzonte, velata dalla pioggia, e senza pensare a nulla, senza provare nulla tranne una sensazione vaga, indefinita, di irrealtà e abbandono. Persino Dickie e Marge sembravano lontani e le cose di cui forse parlavano in quel momento erano del tutto irrilevanti. Era solo. Questa era l'unica cosa che contava. Una sensazione di terrore gelido gli salì su per la spina dorsale, paralizzandolo.

Si girò al rumore del cancello che si apriva. Dickie venne verso di lui sorridendo, ma Tom rimase colpito dal formalismo di quel sorriso forzato ed educato.

«Cosa fai, lì in piedi sotto l'acqua?» chiese Dickie riparandosi sotto il portoncino di ingresso.

«È rinfrescante,» rispose Tom in tono gioviale. «C'è una lettera per te,» e gli porse la lettera, cacciandosi in tasca l'altra di Greenleaf.

Tom appese la giacca nell'armadio del corridoio. Poi, quando Dickie ebbe terminato di leggere la sua lettera, ridendo rumorosamente a più riprese, continuò: «Credi che a Marge farebbe piacere venire con noi a Parigi?»

Dickie lo guardò sorpreso. «Credo proprio di sì.»

«Bene, allora invitala,» lo esortò Tom allegramente.

«Non so se sia una buona idea andare fino a Parigi,» ribatté Dickie. «Mi piacerebbe andarmene via di qui per qualche giorno, è vero, ma Parigi...» Si accese una sigaretta. «Mi andrebbe di più fare un salto a San Remo, oppure a Genova. È una città interessantissima.»

«Sì, ma Parigi... Pensi che Genova possa reggere il confronto con Parigi?»

«Certo che no, però è molto più vicina.»

«Ma allora quando andiamo a Parigi?»

«Non saprei. Un'altra volta. Tanto Parigi non scappa.»

Tom sentì l'eco di quelle parole risuonargli nelle orecchie. Un paio di giorni prima Dickie aveva ricevuto una lettera del padre. Ne aveva letto alcuni passi ad alta voce e avevano riso insieme, però non l'aveva letta tutta, come aveva fatto altre volte. Tom era certo che il signor Greenleaf avesse confidato al figlio di averne abbastanza di Tom Ripley e che, con tutta probabilità, sospettava che lo sfruttasse per i suoi scopi. Un mese prima Dickie avrebbe riso a una frase simile anche lui. Non adesso, però, pensò Tom. «Pensavo che finché ci restano un po' di soldi dovremmo proprio fare questo viaggio a Parigi.»

«Vacci tu. Io non ne ho voglia in questo momento. Voglio tenermi le forze per Cortina.»

«Va bene, vuol dire che andremo a San Remo, allora,» accondiscese Tom cercando di avere un tono allegro e accomodante malgrado la delusione.

«Affare fatto.»

Tom corse dal corridoio in cucina. L'enorme mole candida del frigorifero lo investì fin dalla soglia. Voleva da bere, e con tanto ghiaccio dentro. Aveva passato una giornata intera a Napoli con Dickie e Marge alla ricerca di un frigorifero, ispezionando tutti gli sportelli e i reparti surgelatori, contando gli accessori finché Tom non era stato in grado di riconoscere ogni marca a prima vista. Ma Dickie e Marge avevano continuato implacabili con l'entusiasmo di una coppia che si prepara alle nozze. Poi avevano passato altre ore, seduti a un bar, discutendo, prima di decidersi, i pregi e i difetti di tutti i frigoriferi che avevano visto. Adesso Marge andava e veniva più spesso di prima perché nel frigorifero teneva anche parte delle sue provviste, oppure perché veniva a farsi dare un po' di ghiaccio. All'improvviso Tom si rese conto della ragione per cui aveva odiato quel dannato frigorifero fin dal primo momento. Era un segno che Dickie aveva intenzione di restare fermo in quel posto. Segnava la fine non solo della crociera in Grecia, ma indicava che Dickie non si sarebbe mai trasferito a Parigi o a Roma, come aveva pensato di fare con Tom i primi tempi della sua permanenza. Impossibile, ormai, con un frigorifero che aveva il pregio di essere uno dei quattro unici frigoriferi del paese, un frigorifero con ben sei vaschette per il ghiaccio e così tanti reparti e cassetti inseriti nello sportello da far concorrenza a uno scaffale del supermercato.

Tom si versò da bere, senza ghiaccio. Gli tremavano le mani. Soltanto ieri Dickie gli aveva chiesto: «Hai intenzione di andare a casa per Natale?» in tono casuale, gettando lì la domanda nel mezzo di una conversazione. Ma Dickie sapeva molto bene che non aveva nessuna intenzione di andare a casa per Natale. Lui non aveva una casa, e Dickie non lo ignorava. Aveva raccontato tutto a Dickie di zia Dottie e della sua vita a Boston. Era stata un'allusione, un suggerimento, ecco cos'era! Marge era piena di progetti per Natale. Aveva da parte una scatola di pudding inglese alla prugna e avrebbe preso un tacchino da un contadino del posto. Tom si figurava tutta la messinscena rivoltante che avrebbe saputo mettere in piedi con la sua melensaggine e il suo sentimentalismo da quattro soldi. Ci sarebbe stato l'albero di Natale, naturalmente, fatto con il cartone. Poi non sarebbero mancati gli inni strappalacrime, Silent Night e il tradizionale Vov caldo. E che dire dei regalini sdolcinati per Dickie? Marge lavorava a maglia. Si portava sempre a casa i calzini di Dickie da rammendare. E, con cortesia e risolutezza, lo escludevano sempre di più dai grandi progetti. Ogni volta che si rivolgevano a lui con aria cordiale era evidente che facevano uno sforzo enorme. Tom non sopportava l'idea. Va bene, sarebbe partito. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di non sopportare la tortura di un Natale in loro compagnia.

 

12

 

Marge dichiarò che non aveva voglia di andare con loro a San Remo. Era proprio nel bel mezzo di un momento creativo con il suo libro. Marge era molto discontinua nel suo modo di lavorare, anche se non perdeva mai il buon umore. Eppure a Tom sembrava che fosse impantanata, come soleva dire lei con una risatina insulsa, almeno il settantacinque per cento del tempo. Quel libro deve essere una schifezza, pensò Tom. Aveva conosciuto altri scrittori e sapeva che non si può scrivere un libro con tanta indifferenza, passando metà del tempo a cuocersi al sole in spiaggia e pensando costantemente a cosa preparare per cena. Era comunque felice che fosse in un momento creativo proprio quando Dickie e lui avevano deciso di andare a San Remo.

«Ti sarei molto grata se cercassi di trovarmi quella colonia, Dickie. Sai quale, lo Stradivari, quella che non sono riuscita a trovare a Napoli l'ultima volta. A San Remo non può non esserci, ci sono talmente tanti negozi con articoli francesi.»

Tom si vide già a girare tutto il giorno per San Remo alla ricerca della colonia, proprio come era avvenuto a Napoli quel sabato.

Presero una sola valigia in due, dato che sarebbero stati via solo tre notti e quattro giorni in tutto. Dickie era di umore un po' meno tetro, per quanto al fondo di quel cambiamento sonnecchiasse l'orribile sensazione che ciò era dovuto al fatto che quello era l'ultimo viaggio che avrebbero fatto assieme, da qualunque parte. Per Tom la gentilezza garrula di Dickie sul treno fu stranamente simile alla gentilezza di un padrone di casa che detesta il suo ospite e che teme che questi se ne sia accorto, per cui cerca di rappezzare la situazione all'ultimo momento cadendo nella cortesia eccessiva. Mai, in vita sua, Tom si era sentito così respinto, così mal sopportato. In treno Dickie raccontò a Tom di San Remo e della settimana che vi aveva trascorso con Freddie Miles al suo arrivo in Italia. San Remo era molto piccola, ma aveva fama internazionale per i suoi negozi, raccontò Dickie, la gente veniva fin da oltre la frontiera francese per farvi acquisti. Tom ebbe l'impressione che Dickie stesse cercando di presentargli la cittadina sotto una luce talmente favorevole per indurlo a restarci, anziché tornare fino a Mongibello con lui. Tom cominciò a provare un'avversione incontenibile contro quel luogo prima ancora di averlo visto.

Poi, mentre il treno stava entrando lentamente in stazione a San Remo, Dickie esclamò: «A proposito, Tom, mi dispiace dirtelo e spero che tu non te la prenda troppo a male, ma avrei proprio voglia di andare a Cortina d'Ampezzo solo con Marge. Credo che lei lo preferisca e io, dopo tutto, le devo pur qualcosa, se non altro una vacanza piacevole, se posso offrirgliela. D'altra parte non mi pare che tu sia così entusiasta per lo sci.»

Tom si sentì raggelare ma cercò di non dimostrarlo neppure con un fremito. Adesso scaricava tutto su Marge! «Ma certo,» rispose. «Naturalmente.» Guardò nervosamente la cartina che teneva in mano, cercando disperatamente un luogo nei dintorni di San Remo dove andare a rifugiarsi. Ma Dickie era già occupato a tirare la valigia giù dalla reticella. «Qui non siamo molto lontani da Nizza, vero?» chiese Tom.

«No.»

«E neppure da Cannes. Mi piacerebbe vedere Cannes dato che sono da queste parti. In fondo Cannes è già Francia,» aggiunse con una sfumatura di rimprovero nella voce.

«Bene, credo proprio che potremmo andarci, dopo tutto. Hai con te il passaporto, vero?»

Tom l'aveva. Presero un treno per Cannes e vi giunsero verso le undici di sera.

A Tom sembrò bellissima: l'arco dolce del porto, punteggiato da mille luci e simile a una falce di luna, il viale principale dall'aria così tropicale e così raffinata, con le file di palme che costeggiavano l'acqua e la fila un po' più arretrata di alberghi di lusso. La Francia! Sembrava meno chiassosa, forse più raffinata dell'Italia, lo sentiva malgrado l'oscurità. Scelsero un albergo nella prima via dietro il corso principale, il Gray D'Albion. Era abbastanza chic ma non tanto da costare un occhio della testa, disse Dickie, per quanto Tom sarebbe stato ben contento di pagare qualunque cifra pur di scendere in uno dei lussuosi alberghi del lungomare. Lasciarono la valigia in albergo e andarono al bar del Carlton che, a detta di Dickie, era l'albergo più alla moda di tutta Cannes. Come aveva previsto al bar non c'era molta folla dato che in quel periodo non c'erano molti turisti. Tom propose di farsi un secondo cocktail, ma Dickie rifiutò.

Il mattino seguente fecero colazione in un bar, e poi passeggiarono pigramente fino alla spiaggia. Avevano infilato il costume da bagno sotto i pantaloni. La giornata era fresca, ma non così tanto da escludere che si potesse fare una nuotata. A Mongibello avevano fatto il bagno anche in giornate più fredde di quella. La spiaggia era praticamente vuota, solo un paio di coppie qua e là e un gruppetto di uomini che facevano uno strano gioco verso il molo. Le onde si gonfiavano e andavano a infrangersi con forza rabbiosa sulla sabbia della riva. Adesso Tom poteva vedere che il gruppo di uomini più in là stava facendo delle acrobazie.

«Devono essere dei professionisti,» osservò Tom. «Hanno tutti la stessa calzamaglia gialla.»

Tom rimase a guardare con grande interesse una specie di piramide umana che stava lentamente formandosi fra un groviglio di piedi, puntati su cosce possenti, e di mani su avambracci muscolosi. Sentiva distintamente i loro «Allez!» e «Un... deux!» per darsi il ritmo.

«Guarda!» esclamò Tom. «Adesso sale la cima!» e rimase immobile in ammirazione del più piccolo del gruppo, un ragazzo di circa diciassette anni, che veniva agilmente rizzato sulle spalle dell'uomo al centro degli ultimi tre. Rimase fermo e sicuro, con le braccia aperte, come pronto a ricevere l'applauso.

«Bravo!» urlò Tom.

Prima di saltare giù, agile come una tigre, il ragazzo sorrise a Tom.

Tom guardò Dickie, ma questi stava fissando un paio di uomini che sedevano poco più in là sulla spiaggia.

«Diecimila ne vidi in un lampo, annuire in una danza gioiosa,» disse Dickie acidamente a Tom.

Tom rimase dapprima colpito da quella frase, poi fu colto da un'ondata di vergogna, la stessa vergogna provata a Mongibello quando Dickie gli aveva gettato in faccia: «Marge è convinta che tu lo sia.» E va bene, pensò Tom, gli acrobati erano checche. Forse Cannes era zeppa di checche. E allora? I pugni di Tom si contrassero nelle tasche dei pantaloni. Gli tornò in mente l'allusione sarcastica di zia Dottie: «Femminuccia, è una femminuccia bella e buona, proprio come suo padre!» Dickie se ne stava in piedi, immobile, con lo sguardo fisso sul mare. Tom si trattenne deliberatamente dal guardare di nuovo gli acrobati, per quanto dovessero essere uno spettacolo senza dubbio più divertente dell'oceano. «Vuoi entrare?» chiese Tom in tono di sfida, aprendosi la camicia, sebbene l'acqua gli sembrasse improvvisamente fredda come il ghiaccio.

«Non credo,» rispose Dickie. «Perché non te ne stai qui a guardare gli acrobati, invece? Io torno in albergo.» Quindi si girò e prese a camminare senza aspettare la risposta di Tom.

In fretta Tom si abbottonò la camicia seguendo con lo sguardo Dickie che si allontanava evitando di passare accanto agli acrobati, nonostante le scalette verso le quali si dirigeva fossero molto più lontane di quelle accanto a loro. Maledetto! pensò Tom. Era proprio indispensabile che si comportasse in modo così arrogante e scostante tutto il tempo? Si sarebbe detto che non aveva mai visto un finocchio fino a quel momento! Non c'erano dubbi su quello che stava succedendo a Dickie, pensò Tom. Ma perché non si lasciava andare una volta tanto? Dopo tutto cosa aveva da perdere di così importante? Mentre correva dietro all'amico almeno una mezza dozzina di battute sarcastiche gli salirono alle labbra. Poi, quando Dickie si girò e gli lanciò un'occhiata gelida, quasi di scherno, la prima osservazione sarcastica gli morì in gola.

Partirono per San Remo quel pomeriggio stesso, poco prima delle tre, in modo che non dovessero pagare un'altra giornata in albergo. Era stato Dickie a suggerire di partire entro le tre, eppure era stato Tom a pagare il conto di 3.43 franchi, cioè dieci dollari e ottanta centesimi per una sola notte. Di nuovo fu Tom a comprare i biglietti ferroviari per San Remo, anche se Dickie era pieno di franchi. Dickie aveva portato con sé la rimessa mensile dall'Italia e l'aveva riscossa in franchi francesi, pensando di guadagnarci nel cambio da franchi a lire italiane dato che, in quel momento, il franco era quotato molto alto.

In treno Dickie non disse neppure una parola, fece finta di avere sonno e si rannicchiò in un angolo con gli occhi ostinatamente chiusi. Tom sedette di fronte a lui fissando il suo attraente viso dall'espressione arrogante e le mani, ornate dall'anello verde e dal sigillo d'oro. Tom ebbe l'impulso di rubare l'anello verde, prima di andarsene. Non sarebbe stato difficile: Dickie aveva l'abitudine di levarlo prima di entrare in acqua. A volte lo levava persino quando faceva la doccia, su in casa. L'avrebbe fatto l'ultimo giorno, decise Tom. Fissava le palpebre abbassate di Dickie. Dentro di lui stava montando un'emozione incontrollabile, fatta di odio, amore, frustrazione e insofferenza. Gli mancò il respiro. Voleva uccidere Dickie. Non era la prima volta che questa idea gli passava per la mente. Ma prima, un paio di volte o forse tre, questa idea era dovuta a rabbia passeggera, a delusione cocente, insomma era frutto di un impulso momentaneo che svaniva in fretta, lasciandogli dentro un senso di rimorso. Quel giorno, però, indugiò su quell'idea per un minuto o due. Dopo tutto avrebbe dovuto lasciare Dickie comunque, e cosa contava la vergogna in una situazione simile? Con Dickie aveva fallito su tutta la linea. Odiava Dickie perché, da qualunque punto di vista osservasse la situazione, il fallimento non dipendeva da lui; da nessuna delle cose che aveva fatto, ma piuttosto dipendeva dall'ostinazione disumana di Dickie. E dalla sua palese insensibilità. Lui a Dickie aveva offerto amicizia, compagnia e rispetto, tutto quello che aveva da offrire, insomma! E Dickie si stava sbarazzando di lui, con semplicità e indifferenza. Se lo avesse ucciso durante quel viaggio avrebbe sempre potuto raccontare che era stato un incidente. Avrebbe potuto... Gli era appena venuta un'idea brillante: perché non diventare lui stesso Dickie Greenleaf? In fondo poteva fare qualunque cosa facesse Dickie. Prima di tutto avrebbe potuto tornare a Mongibello a prendersi tutto quello che apparteneva a Dickie e a raccontare una storia qualunque a Marge. Poi avrebbe preso un appartamento a Roma o a Parigi, dove avrebbe potuto incassare l'assegno di Dickie tutti i mesi falsificandone la firma. Poteva calarsi d'un colpo nel personaggio di Dickie. Avrebbe potuto manovrare Greenleaf senior come un burattino. La pericolosità del progetto e la sua precarietà non fecero che aumentare il suo entusiasmo. Cominciò a pensare al come.

L'acqua. Ma Dickie era un nuotatore talmente provetto. La scogliera. Sarebbe stato facile spingere Dickie giù dalla scogliera mentre facevano una passeggiata, ma ebbe la visione di Dickie che si attaccava a lui e lo tirava con sé nel precipizio. Si contrasse sul sedile finché i muscoli delle gambe non gli fecero male e le unghie non gli trafissero quasi il polpastrello del pollice. Avrebbe dovuto tirargli via anche l'altro anello. Avrebbe dovuto decolorarsi un po' i capelli. Poi avrebbe dovuto evitare, naturalmente, qualunque luogo dove ci fosse qualcuno che conosceva Dickie. Avrebbe dovuto soltanto accentuare la somiglianza con Dickie in modo da poter usare il suo passaporto. Era possibile. Se solo...

Dickie spalancò gli occhi e lo guardò fisso. Tom si abbandonò lasciandosi cadere nel suo angolo, con il capo reclinato all'indietro e gli occhi chiusi, con la rapidità di uno che sta venendo meno.

«Tom, ti senti bene?» chiese Dickie scuotendogli una gamba.

«Okay,» rispose Tom sorridendo debolmente. Vide che Dickie tornava a rilassarsi contro lo schienale con aria irritata. Tom conosceva il motivo di quell'irritazione: Dickie si odiava per avergli concesso anche quel fugace momento di attenzione. Tom sorrise dentro di sé, compiaciuto della sua prontezza di riflessi nel fingere quello svenimento, dato che era stato un espediente per evitare che Dickie scorgesse la strana e sinistra espressione dipinta sul suo viso.

San Remo. Fiori. Un'altra passeggiata sul lungomare, ancora negozi e negozietti, ancora turisti francesi, inglesi e italiani. Un altro albergo con i balconi traboccanti di fiori. Dove, stanotte? In una di queste stradine? Per l'una di notte la città sarebbe stata buia e silenziosa, se solo fosse riuscito a tenere Dickie sveglio fino a quell'ora. Nell'acqua? La giornata era piuttosto coperta, ma non fredda. Il cervello di Tom lavorava continuamente. Sarebbe stato facile anche in camera in albergo, ma come sbarazzarsi del corpo? Il corpo doveva assolutamente sparire. Questo escludeva ogni altro mezzo tranne l'acqua, e l'acqua era l'elemento naturale di Dickie. Alla spiaggia noleggiavano barche a remi e piccole barche a motore. In ogni barca a motore, notò Tom, c'era un anello di cemento massiccio legato a una gomena che fungeva da ancora per la barca.

«Che ne diresti se prendessimo una barca, Dickie?» chiese Tom cercando di non suonare troppo entusiasta. Dickie lo guardò stupito; non era stato entusiasta da quando erano arrivati da quelle parti.

In fila, legate al molo, c'erano una decina di barchette a motore bianche e verdi e bianche e blu. Il barcaiolo era ansioso di trovare clienti dato che la giornata grigia e fredda non invitava certo alle gite in mare. Dickie scrutò il Mediterraneo plumbeo, per quanto non ci fosse presagio di pioggia nell'aria. Era quel genere di tempo grigio e pesante che dura tutto il giorno, il sole non sarebbe spuntato per niente. Erano circa le dieci e mezzo, proprio l'ora più pigra che segue la prima colazione, con tutta la lunga e oziosa mattinata italiana davanti.

«Va bene. Ma solo per un'oretta, tanto per fare il giro della baia,» concesse Dickie già con un piede nella barca. Dal suo sorriso Tom si rese conto che non era la prima volta che lo faceva, e stava vivendo il piacere di quel momento, o forse di intere mattinate passate in quel modo con Freddie, o con Marge. La bottiglia di colonia di Marge rigonfiava la tasca della giacca di velluto a coste di Dickie. L'avevano comperata pochi minuti prima in un negozietto sulla passeggiata, simile a un drugstore americano.

Con un energico strappo al cavo di avviamento il barcaiolo azionò il motore e chiese a Dickie se sapeva come farlo andare. Dickie annuì. C'era un remo nella barca, un solo remo, notò Tom. Dickie prese la barra del timone e puntarono risolutamente verso il largo.

«Splendido!» urlò Dickie con un sorriso, i capelli agitati dal vento.

Tom si guardò intorno. Su un lato una roccia a strapiombo sul mare rendeva il paesaggio molto simile a Mongibello, dall'altra parte una spiaggia piatta e sabbiosa stava scomparendo inghiottita dalla foschia che aleggiava sull'acqua. Di primo acchito non avrebbe saputo dire che direzione fosse più opportuno prendere.

«Conosci la zona qui intorno?» urlò Tom, cercando di superare il rombo del motore.

«Per niente!» rispose Dickie allegramente. Evidentemente si stava godendo la corsa.

«È duro da manovrare quell'affare?»

«Neanche un po'! Vuoi provare?»

Tom esitò. Dickie stava puntando ancora verso il mare aperto. «No, grazie.» Di nuovo si guardò a destra e a sinistra. In lontananza, sulla sinistra, c'era una barca a vela. «Dove andiamo?» urlò Tom.

«T'importa?» sorrise Dickie.

No, non gli importava.

Senza preavviso Dickie virò verso destra, con tale violenza che dovettero curvarsi entrambi per equilibrare il peso della barca e impedirle di imbarcare acqua. Un muro di schiuma bianca si sollevò alla sinistra di Tom, quindi gradualmente si abbassò lasciando libera la linea dell'orizzonte. Di nuovo stavano puntando verso il mare aperto, verso il nulla. Dickie spingeva al massimo il motore, sorridendo, con gli occhi azzurri ridenti sul nulla.

«In queste barchette si ha l'impressione di andare molto più veloci di quanto si vada in realtà!» urlò Dickie.

Tom annuì, permettendo a un sorrisetto compiacente di affiorare in superficie. In verità era terrorizzato. Dio solo sapeva quanto era profonda l'acqua sotto di loro. Se solo fosse successo qualcosa alla barca non c'era una sola possibilità al mondo che ce la facessero fino a riva; per lo meno, che lui ce la facesse. Era altrettanto vero che non c'era una possibilità al mondo che qualcuno vedesse quello che avveniva nella barca. Di nuovo Dickie stava virando leggermente verso destra, cioè verso una lingua di terraferma grigia e nebbiosa. Da quella distanza, pensò, avrebbe potuto colpire Dickie, avrebbe potuto saltargli addosso, baciarlo, o gettarlo in mare senza che nessuno potesse vederli. Tom sudava, un sudore gelido sulla fronte e bollente sotto gli abiti. Aveva paura, ma non dell'acqua, di Dickie. Sapeva che era arrivato il momento, ormai niente avrebbe potuto fermarlo, neppure la sua stessa volontà. Eppure poteva anche non riuscire.

«Scommetti che mi butto in acqua?» urlò Tom slacciandosi i bottoni della giacca.

Dickie rise a quella sfida, con la bocca spalancata e gli occhi fissi all'orizzonte. Tom continuò a spogliarsi. Portava scarpe e calzini ma sotto i pantaloni aveva il costume da bagno, come Dickie. «Se vai dentro ci vengo anch'io!» urlò. «Allora?» Voleva indurlo a rallentare.

«Allora certo!» Dickie rallentò di botto, quasi staccando il motore, lasciò la barra del timone e si tolse la giacca. La barca oscillò perdendo velocità. «Forza,» esclamò Dickie, indicando con un cenno del capo i pantaloni che Tom non si era ancora tolti.

Tom lanciò un'occhiata alla terraferma. San Remo era una confusione indistinta di case bianche e rosa. Prese il remo con aria noncurante, come se stesse giocherellandoci, poi nel momento esatto in cui Dickie era impegnato a togliersi i pantaloni, lo sollevò e lo abbatté sulla sua testa.

«Ehi!» gridò Dickie guardandolo stupefatto e cadendo riverso sul sedile di legno. Le sopracciglia pallide si aggrottarono in una sorta di ottusa incredulità.

Tom si alzò e colpì nuovamente col remo, con forza, con l'energia disperata di una molla che scatta.

«Per Dio!» biascicò Dickie, fissandolo minacciosamente, come una belva scatenata, mentre la coscienza scivolava via dagli inespressivi occhi azzurri.

Tom lasciò andare un altro colpo di sinistro contro la tempia di Dickie. Il remo prese la testa di taglio aprendo uno squarcio. Schizzò uno zampillo di sangue, davanti agli occhi attoniti di Tom. Adesso Dickie era steso sul fondo della barca, scomposto nell'agonia. Lanciò un grugnito di protesta, che suonò come un ruggito spaventoso alle orecchie di Tom. Spietatamente continuò a colpirlo alla base del collo, per tre volte, con colpi secchi e rapidi dati con la parte piatta del remo. Usava il remo come una specie di ascia contro il tronco di un albero. La barca oscillava paurosamente imbarcando acqua e bagnando i piedi di Tom puntati saldamente sull'ossatura del fondo. Diede un altro colpo di taglio alla fronte di Dickie che si coprì di sangue. Per un attimo Tom si rese conto che stava per cedere. Eppure, malgrado i colpi, le mani di Dickie strisciavano inesorabilmente sul fondo verso di lui mentre le lunghe gambe agili cercavano un punto di appoggio per colpirlo e fargli perdere l'equilibrio. Tom afferrò saldamente il remo come una lancia e l'affondò nel fianco di Dickie. Il corpo martoriato si afflosciò inerte, finalmente immobile. Tom si rizzò ansimante e cercò di riprendere fiato. Si guardò intorno attentamente. Non c'erano barche in vista, nulla, tranne in lontananza un puntolino bianco, quasi impercettibile, che si muoveva velocemente verso sinistra. Probabilmente un motoscafo d'alto mare che si dirigeva verso riva.

Si fermò, strappò l'anello verde dal dito di Dickie e se lo cacciò in tasca. L'altro anello era più stretto ma alla fine cedette e uscì dal dito dalla nocca escoriata e sanguinante. Ispezionò le tasche dei pantaloni. C'erano alcune monete italiane e francesi. Le lasciò dove si trovavano. Prese solo un portachiavi con tre chiavi. Poi tirò su la giacca di Dickie e prese la colonia per Marge, le sigarette, l'accendino d'argento, la penna stilografica, il portafogli di coccodrillo e alcuni biglietti da visita e carte di credito dalla tasca interna. Di furia si cacciò tutto nella tasca della giacca di velluto a coste. Poi afferrò la fune assicurata all'anello di cemento bianco; l'altro capo della fune era assicurato a un anello di ferro a prua della barca. Tom cercò di slegarlo. Al diavolo, era un nodo infernale, reso ancor più stretto dall'acqua salmastra e dal tempo. Lo colpì con il pugno con un gesto di disperazione. Aveva bisogno di un coltello.

Guardò Dickie. Era morto? Tom si rannicchiò nell'angolino di prua fissando Dickie alla ricerca di un segno di vita. Aveva orrore di toccarlo, persino di sfiorargli il torace o il polso per sentire se il cuore batteva ancora. Si girò e scosse freneticamente la fune finché non si rese conto che stava solo peggiorando la situazione.

L'accendino! Annaspò nella tasca dei pantaloni gettati sul fondo della barca. L'accese ed espose una parte asciutta di fune al calore della fiammella. Era una fune spessa circa tre centimetri e bruciava lentamente, troppo lentamente. Tom approfittò della forzata inattività per guardarsi intorno. Era possibile che il barcaiolo li vedesse in qualche modo, da quella distanza? La fune grigia e dura rifiutava di prender fuoco, limitandosi a mandare un filo di fumo e qualche favilla, bruciando una fibra alla volta. Tom la torse, e l'accendino si spense. L'accese di nuovo continuando a tirare e a torcere la fune. Quando infine si spezzò, la avvolse quattro volte intorno alle caviglie nude di Dickie prima di farsi prendere dal terrore e fece un enorme nodo, goffo ed eccessivo, pur di avere la certezza che non si sciogliesse. Valutò che la fune dovesse essere lunga circa dieci metri. Cominciò a sentirsi più freddo, controllato e metodico. Il peso di cemento doveva essere sufficiente a trattenere un corpo sott'acqua, pensò. Era possibile che il corpo ondeggiasse un po', ma di sicuro non sarebbe salito fino alla superficie.

Tom gettò in acqua il peso. Questo descrisse un breve arco e affondò nei flutti trasparenti con un tonfo e un ribollire di schiuma. Quasi subito scomparve e affondò, affondò finché la fune non si tese con uno strappo intorno alle caviglie di Dickie, mentre Tom cercava di sollevarle oltre il bordo della barca e di spingere contemporaneamente il corpo. Disperato, cercò di tirare un braccio, tiepido e inerte, quasi goffo. Ma le spalle restavano ostinatamente incollate al fondo della barca e quando intensificò la stretta al braccio questo lo seguì, cedendo come se fosse stato di gomma, senza minimamente smuovere il corpo. Tom si mise in ginocchio e cercò di fare leva dal basso. Riuscì solo a far oscillare pericolosamente la barca. Aveva dimenticato di essere in mezzo all'acqua. L'acqua era l'unica cosa in grado di terrorizzarlo. Era meglio che cercasse di gettarlo fuori dalla parte della poppa, pensò, dato che era più bassa rispetto al livello dell'acqua. Dalle oscillazioni e dagli strappi della fune poteva star certo che il peso non aveva toccato il fondo. Riprovò con la testa e le spalle di Dickie, facendo ruotare il corpo sulla pancia e spingendo a poco a poco, con pazienza. Ora la testa di Dickie era in acqua, con il bordo della barca che gli tagliava il corpo in due, mentre le gambe ciondolavano inerti, pesanti come il piombo e ignare degli sforzi disperati di Tom, proprio come era avvenuto poco prima per le spalle. Sembrava che una forza irresistibile le tenesse incollate, come calamitate, al fondo della barca. Tom respirò a lungo e ci provò di nuovo. Finalmente il corpo superò il bordo, ma Tom perse l'equilibrio e cadde contro la barra del timone. Il motore, al minimo, partì rombando.

Tom fece un balzo verso la levetta di comando ma la barca scartò contemporaneamente descrivendo un arco come un cavallo imbizzarrito. Per un attimo vide l'acqua sotto di lui e le sue mani protese nel vuoto, nel vano tentativo di afferrarsi al bordo che improvvisamente non era più dove avrebbe dovuto essere.

Si ritrovò in acqua.

Boccheggiò e raccolse le forze per balzare verso l'alto nel tentativo di afferrare la barca. Fece cilecca. La barca stava descrivendo un folle cerchio. Tom si tirò su di nuovo e ricadde ancora più in basso, sotto il pelo dell'acqua che si richiuse sopra di lui in un abbraccio mortale, implacabile anche se stranamente lento. Non abbastanza lento, però, da permettergli di prendere fiato. Ingoiò una boccata d'acqua mentre la liquida superficie si richiudeva su di lui. Adesso la barca era lontana. Non era la prima volta che assisteva a quella specie di rodeo acquatico. La barca non si sarebbe fermata più finché qualcuno non fosse salito a bordo per fermare il motore. In quel vuoto mortale, fatto di acqua, soffrì l'angoscia della morte, affondò di nuovo sotto la liquida superficie verde e il rombo del motore impazzito cessò mentre l'acqua gli riempiva le orecchie, escludendo qualunque rumore tranne i suoni frenetici e disperati che produceva lui stesso, suoni di lotta, di respiro affannoso, di disperate pulsazioni sanguigne. Fu di nuovo fuori, lottando meccanicamente per raggiungere la barca, perché era l'unica cosa galleggiante intorno a lui, malgrado la sua folle corsa e la sua remota irraggiungibilità. La prua tagliente sfrecciò due volte accanto a lui, anzi, tre volte, quattro, mentre cercava di prendere fiato.

Urlò aiuto. Non ne ricavò nulla, tranne un'altra boccata d'acqua salata. Riuscì a toccare con la mano la barca sotto il pelo dell'acqua ma la spinta incontenibile della prua lo respinse lontano. Annaspò selvaggiamente per toccare la poppa della barca senza curarsi delle pale mortali dell'elica. Le dita sfiorarono la barra del timone. Scattò. Troppo tardi! Mentre gli passava sopra, la chiglia lo colpì violentemente sulla nuca. Ecco, la poppa era di nuovo a portata di mano. Annaspò ancora una volta mentre le dita cercavano una presa sulla viscida barra del timone. L'altra mano afferrò miracolosamente il bordo. Tenne il braccio rigido cercando di portare il corpo lontano dall'elica. Con energia disperata si diede una spinta verso l'angolo di poppa. Ora un braccio era saldamente ancorato al bordo. Lentamente tastò finché non arrivò a toccare la levetta di comando.

La barca rallentò.

Tom rimase aggrappato con tutte e due le mani al bordo, la testa vuota per il sollievo, per l'incredulità, finché non si rese conto del dolore lancinante alla gola e delle violente fitte che gli dilaniavano il petto a ogni respiro. Rimase immobile per un periodo indefinito fra i due e i dieci minuti, senza pensare a nulla tranne che a raccogliere le forze per riuscire a sollevarsi dentro la barca. Infine, dandosi delle lievi spinte su e giù nell'acqua, riuscì a issarsi a bordo e restò immobile, con la faccia sul fondo, i piedi abbandonati nel vuoto. Rimase lì a lungo, appena consapevole del sangue viscido di Dickie fra le dita, viscido e bagnato come i rivoletti d'acqua che colavano dal naso, dalla bocca e dagli abiti intrisi. Prima di muoversi cominciò a pensare velocemente. La barca era piena di sangue. Impossibile restituirla in quello stato, eppure non aveva tempo da perdere, in pochi minuti avrebbe dovuto mettere in moto e partire. In quale direzione?

Pensò agli anelli di Dickie. Li cercò a tentoni nella tasca della giacca. C'erano ancora, e dove si aspettava che fossero, dopo tutto? Fu squassato da un accesso di tosse, mentre le lacrime gli annebbiavano la vista. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno nei dintorni. Si strofinò gli occhi arrossati. Nessuno, non si vedeva niente tranne una barchetta a motore che sfrecciava in lontananza descrivendo ampi cerchi senza badare a lui. Tom guardò il fondo della barca. Era possibile ripulirlo a dovere? Ma il sangue è difficile da lavare via completamente, almeno così pensava. Aveva progettato di restituire la barca e di raccontare, nel caso che gli chiedessero dov'era il suo amico, di averlo lasciato a riva da qualche parte. Adesso era impossibile.

Tom mosse cautamente la leva di comando. Il motore al minimo ronfò obbediente ma Tom ebbe un moto di paura. Eppure il motore sembrava più docile e umano del mare, quindi meno spaventoso. Puntò diagonalmente verso riva, a nord di San Remo. Forse sarebbe riuscito a trovare una spiaggia deserta, un angolino remoto dove abbandonare la barca e andarsene a piedi. Ma se poi l'avessero trovata? Il problema gli sembrò insormontabile. Cercò di ragionare freddamente. Sembrava quasi che la sua mente si rifiutasse di collaborare su quel problema.

Adesso poteva distinguere i pini e, in mezzo a questi, la distesa brulla di una spiaggia e, più in là, l'opaco verdeggiare di un oliveto. Tom costeggiò lentamente la riva cercando traccia di esseri umani. Non c'era un'anima. Puntò verso la spiaggia maneggiando la leva con gran circospezione perché non era affatto certo di riuscire a rimettere in moto in caso il motore si fosse spento. Poco dopo sentì la chiglia della barca raschiare sul fondo. Girò la levetta sullo STOP e spense il motore. Scese cautamente nell'acqua profonda non più di trenta centimetri e tirò la barca a secco più che poté. Poi depose le due giacche, i sandali e la colonia di Marge al sicuro a riva. La piccola baia dove era approdato era lunga poco più di cinque metri e questo gli diede un senso di intimità e sicurezza. Non c'era traccia di nessun essere umano e per quanto ne sapeva lui nessun piede umano aveva mai calcato quel luogo. Tom decise che avrebbe cercato di affondare la barca.

Cominciò a raccogliere sassi non più grandi di una testa umana, dato che gli mancavano le forze per trasportarne di più grossi, e a lasciarli cadere a uno a uno nella piccola imbarcazione. Verso la fine fu costretto a usare pietre più piccole, poiché quelle delle dimensioni volute erano finite. Lavorò senza sosta, terrorizzato all'idea che gli mancassero le forze e che potesse svenire per la stanchezza se si fosse concesso il lusso di riposarsi un solo istante. Non poteva correre il rischio di farsi trovare in quella situazione da qualcuno. Quando le pietre ebbero raggiunto l'altezza delle sponde della barca, spinse l'imbarcazione in acqua e la fece oscillare, sempre più forte, perché si riempisse d'acqua. Mentre la barca affondava lentamente, Tom la spinse verso il largo, seguendola finché l'acqua non raggiunse l'altezza del torace e la barca sfuggì al suo controllo. Quindi arrancò nuovamente verso riva e si abbatté al suolo per un po' a faccia in giù, sulla sabbia. La sua mente ricominciò a funzionare e prese a pianificare il suo rientro in albergo, la storia che avrebbe raccontato e le mosse successive. Avrebbe lasciato San Remo prima di notte e sarebbe rientrato a Mongibello. Il resto della storia era già pronto.

 

13

 

Al tramonto, quando la popolazione locale e i turisti si ritrovano ai tavolini all'aperto dei bar del porto e della passeggiata, lavati e agghindati per godersi lo spettacolo della folla in movimento e ansiosi di non perdersi le poche distrazioni offerte dalla pigra vita di paese, Tom arrivò sulla passeggiata in costume da bagno, sandali e con la giacca di velluto a coste di Dickie gettata sulle spalle. Teneva i suoi pantaloni e la sua giacca, macchiati di sangue, in un fagotto sotto il braccio. Camminava con andatura molle e strascicata soprattutto a causa della stanchezza, ma si sforzava di tenere il capo eretto a beneficio delle centinaia di persone che affollavano i tavolini e lo guardavano percorrere il viale, unica via di accesso al suo albergo sul lungomare. Aveva cercato di recuperare un po' di energie ingollando cinque caffè molto zuccherati e tre brandy in un piccolo bar all'ingresso della cittadina. Adesso si sforzava di recitare la parte del giovane sportivo e atletico che ha passato la giornata in mare, incurante della stagione avanzata e della giornata piuttosto fresca e poco invitante. Arrivò in albergo, prese le chiavi al banco, salì in camera e crollò esausto sul letto. Si sarebbe concesso un'ora di riposo, pensò, ma doveva fare attenzione a non addormentarsi per evitare di non svegliarsi in tempo. Cercò di rilassarsi un po', ma quando si rese conto che stava per assopirsi andò a sciacquarsi il viso. Infine prese un asciugamano bagnato e se lo mise accanto al letto per passarselo sul viso ogni volta che il sonno lo assaliva.

Dopo un po' si rimise faticosamente in piedi e si accinse a pulire la macchia di sangue sui pantaloni di velluto. La strofinò accanitamente con molto sapone, aiutandosi con lo spazzolino per le unghie. Si interruppe per preparare la valigia. Ripose gli effetti personali di Dickie come soleva fare lui, spazzolino da denti e dentifricio nella tasca posteriore sinistra della valigia. Poi tornò a dedicarsi alla macchia sui pantaloni. La sua giacca era ormai inutilizzabile e avrebbe dovuto sbarazzarsene. Però poteva usare quella di Dickie dato che era dello stesso color nocciola e quasi della stessa taglia. Tom aveva fatto fare su misura il suo completo da un sarto di Mongibello, copiando il modello di quello di Dickie. Cacciò la sua giacca in valigia. Poi scese nell'atrio e chiese il conto.

L'impiegato al banco gli chiese dove fosse il suo amico e Tom gli rispose che aveva appuntamento con lui alla stazione. L'uomo era simpatico e sorridente. Gli augurò cordialmente buon viaggio.

Tom fece una sosta a un ristorante due strade più in su e si sforzò di mangiare un piatto di minestrone solo perché aveva bisogno di recuperare un po' di energie. Stava all'erta per paura di incontrare l'uomo che gli aveva noleggiato la barca. La cosa più importante, pensò, era lasciare San Remo la sera stessa. Se non ci fosse stato un treno o una corriera avrebbe preso un taxi.

C'era un treno, lo informarono in stazione, alle dieci e ventiquattro. Un vagone letto, diretto per Roma con coincidenza per Napoli. Di botto tutto gli sembrò talmente semplice, quasi un gioco da bambini, che sentì l'impulso di fare una pazzia e proseguire per Parigi.

«Un attimo,» disse all'impiegato della biglietteria che già stava porgendogli il biglietto. Tom fece qualche passo per l'atrio pensando a Parigi. Poteva andarci per un giorno solo, magari per due. Tanto per vederla, una cosa da niente! Non c'era nessun bisogno di parlarne con Marge. Bruscamente respinse la tentazione. Non sarebbe stato in grado di rilassarsi. Era troppo ansioso di andare a Mongibello e far fuori la faccenda delle cose di Dickie.

Il lenzuolo bianco, un po' rigido, della sua cuccetta in treno gli sembrò la cosa più deliziosa della sua vita. Prima di spegnere la luce lo accarezzò voluttuosamente con la mano. E poi quelle coperte grigio-azzurre, e la straordinaria efficienza della retina scura, assicurata alla parete sopra la sua testa! Tom ebbe un attimo di godimento indescrivibile nel pensare a tutte le delizie che lo attendevano, da ora in poi, grazie al denaro di Dickie. Ci sarebbero stati altri letti, tavole imbandite, mari, navi, valigie, camicie, anni di libertà, anni di piacere! Poi spense la luce e si addormentò prima ancora di appoggiare la testa sul cuscino, felice, soddisfatto e fiducioso come mai era stato in vita sua.

A Napoli fece una sosta nel gabinetto della stazione e tirò fuori dalla valigia lo spazzolino da denti e la spazzola di Dickie che avvolse con l'impermeabile, i pantaloni e la giacca macchiati di sangue. Poi cacciò tutto il fagotto in un enorme bidone della spazzatura appoggiato a un muro in una sordida stradina dietro la stazione. Fece colazione con un caffè e latte e una brioche nella piazza della stazione dei pullman e alle undici salì sulla corriera per Mongibello.

Scendendo dall'autobus si scontrò quasi con Marge che indossava il solito costume da bagno e il solito camiciotto bianco delle sue mattinate in spiaggia.

«Dov'è Dickie?» chiese lei.

«È a Roma,» le sorrise Tom, pronto. «Ha deciso di fermarcisi per qualche giorno. Sono venuto solo io a prendere alcune cose che gli servono.»

«È ospite di qualcuno?»

«No, è alloggiato in albergo.» Con un altro sorriso, questa volta di commiato, Tom si avviò su per la collina trascinandosi dietro la valigia. Un attimo dopo udì lo scalpiccio dei sandali di sughero di Marge alle sue spalle. Si fermò ad aspettarla. «Come vanno le cose nella nostra 'casa dolce casa'?» chiese.

«Una noia, come sempre.» Marge sorrideva. Era evidente che si sentiva ancora a disagio con lui. Ma lo seguì fin su in casa. Il cancello non era chiuso a chiave e Tom prese la grossa chiave di ferro del portoncino di ingresso dal solito nascondiglio, dietro un serbatoio di legno pieno per metà di terra e di cespugli secchi. Andarono insieme sulla terrazza. La tavola era stata spostata e sul parapetto c'era un libro. Marge si era trasferita lì da quando erano partiti, pensò Tom. Era stato via solo tre giorni. Gli sembrarono più di un mese.

«E Skippy come sta?» chiese Tom allegramente aprendo il frigorifero e tirando fuori una vaschetta di ghiaccio. Skippy era un cane randagio che Marge aveva adottato alcuni giorni prima, un brutto cagnetto bianco e nero di razza indefinita che Marge aveva coccolato e nutrito come una vecchia zitella in cerca di affetto.

«Se ne è andato. Non ho mai pensato che restasse con me per sempre.»

«Oh.»

«Hai l'aria di uno che si è divertito un sacco,» osservò Marge, con una venatura di ansia nella voce.

«Sì, ci siamo divertiti,» le sorrise. «Ti preparo qualcosa da bere?»

«No, grazie. Quanto tempo pensi che Dickie resterà via?»

«Ma...» Tom aggrottò la fronte con aria assorta. «Non saprei con precisione. Dice che ha voglia di visitare un sacco di gallerie e di mostre di pittura. Ho l'impressione che il cambiamento di scenario gli faccia bene.» Si versò una dose generosa di gin alla quale aggiunse una fettina di limone e la soda. «Penso che più o meno fra una settimana sarà qui. A proposito!» Aprì la valigia e prese la bottiglia di colonia. L'aveva tolta dalla confezione del negozio dato che era anch'essa macchiata di sangue. «Ecco qua il tuo Stradivari. L'abbiamo trovato a San Remo.»

«Oh, grazie, grazie mille.» Marge la prese sorridendo e cominciò a svitare il tappo con aria sognante.

Tom camminò nervosamente su e giù per la terrazza, tenendo in mano il bicchiere, e senza rivolgere la parola alla ragazza, come se stesse aspettando che se ne andasse.

«Bene...» disse infine Marge, raggiungendolo sulla terrazza. «Quanto pensi di fermarti?»

«Dove?»

«Qui.»

«Oh, solo stanotte. Torno a Roma domani. Nel pomeriggio probabilmente.» Si era ricordato che non avrebbe avuto la posta prima delle due, il giorno dopo.

«Non credo che ci rivedremo, a meno che tu non abbia intenzione di scendere in spiaggia domani,» esclamò Marge sforzandosi di suonare cordiale e amichevole. «Nel caso che non ci si riveda buon divertimento, e di' a Dickie di scrivermi una cartolina. A proposito, a che albergo sta?»

«Oh, uh... e come diavolo si chiama? Sai, quello proprio dietro piazza di Spagna.»

«L'Inghilterra?»

«Proprio lui. Però mi sembra che per la posta abbia intenzione di usare l'American Express.» Non sarebbe arrivata a telefonare a Dickie, pensò Tom. Entro domani sarebbe passato all'albergo per prendere la posta, nel caso lei gli avesse scritto. «Penso proprio che ci vedremo alla spiaggia domattina,» tagliò corto Tom.

«Ottimo. Grazie per la colonia!»

«Di niente.»

Scese il sentierino verso il cancello e finalmente uscì.

Tom prese la valigia e corse in camera di Dickie. Aprì il primo cassetto del comò e lo depose per terra. C'erano lettere, due agendine di indirizzi, una catena da orologio, alcune chiavi e strane polizze di assicurazione. Fece la stessa operazione con gli altri due cassetti, uno alla volta, e vi guardò dentro. Erano pieni di camicie, pantaloncini corti, maglioni piegati e parecchie paia di calze sfuse. In un angolo della stanza stavano ammonticchiati in disordine alcuni raccoglitori per documenti e un blocco di carta da lettere. C'erano un sacco di cose da fare! Si spogliò e, tutto nudo, corse al piano di sotto e fece una rapida doccia fredda. Poi si infilò i vecchi pantaloni bianchi di Dickie che pendevano da un gancio nell'armadio.

Cominciò dal primo cassetto, per due motivi: la corrispondenza più recente era molto importante nel caso ci fossero delle situazioni lasciate in sospeso che richiedevano un intervento immediato e anche perché, se Marge fosse tornata inaspettatamente nel pomeriggio, lui non avrebbe avuto l'aria di smobilitare completamente la casa, senza preavviso. Però avrebbe potuto cominciare con discrezione a riporre nelle valigie più grosse gli abiti migliori di Dickie fin dal pomeriggio, decise Tom.

A mezzanotte girava ancora per la casa tutto affaccendato. Le valigie di Dickie erano pronte e già chiuse. Adesso stava cercando di valutare quanto potesse valere il mobilio della casa, cosa avrebbe lasciato a Marge e come avrebbe provveduto per dar via il resto. Marge poteva prendersi quel maledetto frigorifero. Di certo le avrebbe fatto piacere. Il pesante cassettone intagliato nell'atrio che Dickie usava per la biancheria doveva valere parecchie centinaia di dollari, stimò Tom. Aveva almeno quattrocento anni, Dickie gli aveva detto una volta. Era del Cinquecento. Avrebbe parlato col signor Pucci, vicedirettore del Miramare, e gli avrebbe chiesto di fare da agente per la vendita della casa e del mobilio. E della barca, naturalmente. Dickie gli aveva detto che il signor Pucci faceva lavoretti di quel genere per gli abitanti del posto.

Avrebbe voluto portarsi a Roma tutti gli effetti personali di Dickie fin dal giorno dopo, ma Marge si sarebbe insospettita di fronte a quel voluminoso bagaglio per un'assenza presumibilmente così breve. Decise che sarebbe stato più prudente far finta che Dickie avesse stabilito solo successivamente di trasferirsi a Roma.

Tom andò a ritirare la posta il giorno successivo verso le tre e trovò una lettera molto interessante per Dickie da uno dei suoi amici degli Stati Uniti e niente per sé. Ma mentre camminava lentamente verso casa si figurò di aver ricevuto una lettera da Dickie stesso. Immaginò le parole precise in modo da poterle citare a Marge, se fosse stato necessario, e riuscì persino a simulare a se stesso la lieve sorpresa che avrebbe provato di fronte a una decisione così inaspettata da parte di Dickie.

Arrivato a casa cominciò a imballare i migliori disegni di Dickie e la migliore biancheria per la casa negli scatoloni di cartone presi alla drogheria di Aldo mentre risaliva la collina. Lavorò con calma e con metodo, aspettandosi la visita di Marge da un momento all'altro. La ragazza arrivò dopo le quattro.

«Ancora qui?» gli chiese entrando in camera di Dickie.

«Sì. Ho ricevuto una lettera da Dickie proprio oggi. Ha deciso di trasferirsi a Roma per un po'.» Si sollevò dallo scatolone e le indirizzò un sorrisetto incredulo, come se fosse lui il primo a non potersene capacitare. «Mi ha chiesto di portargli tutto quello che posso.»

«Trasferirsi a Roma? E per quanto tempo?»

«Non saprei. Forse per tutto l'inverno, però,» e si rimise a impignare e legare i quadri.

«Vuoi dire che non ha intenzione di ritornare per tutto l'inverno?» Il tono di Marge era smarrito.

«No. Pare che voglia persino vendere la casa. Però dice che non ha ancora deciso.»

«Caspita! Ma che gli è preso?»

Tom scosse le spalle. «Pare che abbia voglia di passare l'inverno a Roma. Dice che ti scriverà, comunque. Anzi, pensavo che avessi ricevuto una lettera anche tu oggi.»

«No.»

Ci fu una pausa di silenzio. Tom continuò a lavorare. Gli venne in mente che non aveva ancora preparato la sua roba; anzi non era neppure stato in camera sua.

«Però a Cortina ha ancora intenzione di andarci, vero?» chiese Marge.

«No, non più. Dice che scriverà a Freddie per scusarsi che non può. Tu però puoi sempre andarci.» Tom la guardò attentamente. «A proposito, Dickie dice che puoi prenderti il frigorifero. Non dovrebbe esserti difficile trovare qualcuno che ti aiuti a trasportarlo da te.»

Quel dono non fece mutare l'espressione pietrificata dallo sgomento di Marge. Tom sapeva che in quel momento si stava chiedendo se lui e Dickie avrebbero vissuto assieme, cosa molto probabile a giudicare dai suoi modi allegri e rilassati. Tom sentì che Marge ingoiava la domanda salitale spontaneamente alle labbra, come una bambina incapace di mentire. Alla fine esplose e chiese: «E tu, starai con lui?»

«Per un po', forse. Lo aiuto a sistemarsi. Questo mese ho deciso proprio di andare a Parigi poi, verso la metà di dicembre, rientrerò negli Stati Uniti.»

Marge aveva l'aria avvilita. Tom sapeva che stava pensando alle giornate solitarie che l'aspettavano, anche se Dickie avesse fatto delle visitine di tanto in tanto a Mongibello per venirla a trovare, alle vuote domeniche e alle cene desolate senza compagnia. «Cosa ha intenzione di fare per Natale? Pensi che voglia passarlo qui o a Roma?»

Con una sfumatura di irritazione Tom ribatté: «Non credo proprio che voglia farlo qui. Ho l'impressione che voglia starsene per conto suo.»

Il colpo la lasciò senza parole. Era ferita. Chissà come sarebbe rimasta a leggere la lettera che aveva intenzione di scriverle da Roma, pensò Tom. Certo sarebbe stato gentile con lei, gentile e delicato come Dickie, ma non avrebbe lasciato adito a dubbi circa il fatto che Dickie non voleva assolutamente rivederla mai più.

Pochi minuti dopo Marge si alzò in piedi e lo salutò in tono assente. Tom ebbe il sospetto che potesse telefonare a Dickie quel giorno stesso. O che potesse addirittura correre a Roma. E che lo facesse! Dickie avrebbe potuto decidere di cambiare albergo, e c'erano abbastanza alberghi a Roma da tenerla occupata per giorni e giorni, se proprio avesse deciso di scovarlo a tutti i costi. Poi, non trovandolo né per telefono né di persona, avrebbe pensato che se ne era andato a Parigi o da qualche altra parte con Tom Ripley.

Tom diede un'occhiata ai giornali per vedere se parlavano di una barca affondata, ritrovata nei pressi di San Remo. Barca affondata sul litorale di San Remo, così sarebbe stato il titolo, pensò Tom. Avrebbero fatto un sacco di supposizioni circa le macchie di sangue sul fondo, nel caso ci fossero ancora. Era il genere di notizia sulla quale i giornali italiani amavano dilungarsi con il loro stile melodrammatico. «Giorgio di Stefani, giovane pescatore di San Remo, ha fatto ieri pomeriggio verso le tre un'orribile scoperta in due metri d'acqua. Una piccola barca a motore, coperta da orrende macchie di sangue...» Ma sul giornale non c'era nulla del genere. E neppure su quello del giorno prima. Forse ci sarebbero voluti mesi e mesi prima che ritrovassero la barca, pensò. Se mai la ritrovavano. E se anche l'avessero ritrovata, come avrebbero fatto a stabilire che Dickie Greenleaf e Tom Ripley l'avevano noleggiata insieme? Non avevano lasciato il nome al barcaiolo di San Remo. Avevano ricevuto soltanto uno scontrino arancione che Tom si era cacciato in tasca e che in seguito aveva distrutto.

Tom lasciò Mongibello in taxi verso le sei, quella sera, dopo aver preso un caffè da Giorgio e dopo aver salutato Giorgio, Fausto e altri conoscenti in paese. Raccontò a tutti la stessa versione dei fatti. Dickie Greenleaf avrebbe passato l'inverno a Roma, intanto mandava a tutti i suoi saluti e sperava di rivederli quanto prima. Tom aggiunse che senza dubbio Dickie sarebbe venuto presto a salutarli di persona.

Quel pomeriggio aveva fatto imballare dagli incaricati dell'American Express di Napoli i quadri e la biancheria di Dickie, dando disposizioni perché partissero quel giorno stesso per Roma insieme agli scatoloni, al baule di Dickie e a due delle valigie più pesanti. Tutta la merce, disse, sarebbe stata ritirata alla loro agenzia di Roma a nome di Dickie Greenleaf. In taxi con sé, Tom prese solo le sue due valigie e un'altra piccola di Dickie. Aveva anche parlato con il signor Pucci, al Miramare, chiedendogli se poteva farsi carico della vendita della casa e del mobilio del signor Greenleaf, nel caso questi avesse deciso di sbarazzarsene. Naturalmente egli aveva accettato. Tom aveva anche parlato con Pietro, il guardiano del molo, e gli aveva chiesto di tenere gli occhi aperti per un probabile acquirente del Pipistrello dato che c'era una possibilità che il signor Greenleaf volesse darlo via quell'inverno stesso. Disse che probabilmente lo avrebbe ceduto per cinquecentomila lire, meno di ottocento dollari: un affare d'oro per un cabinato con due cuccette. Pietro assicurò di poterlo vendere in un batter d'occhio.

Sul treno diretto a Roma Tom preparò la lettera per Marge con tanta cura che l'imparò praticamente a memoria parola per parola, tanto che quando arrivò all'Hotel Hassler, tirò fuori dalla valigia la macchina da scrivere portatile di Dickie e la scrisse in un fiato.

 

Roma

28 novembre, 19..

Mia cara Marge,

ho deciso di prendere un appartamento qui in città per quest'inverno, così, tanto per cambiare e starmene un po' alla larga dalla vecchia cara Mongy. Ho un bisogno terribile di starmene un po' per conto mio. Mi spiace che tutto sia stato così improvviso e di non aver avuto modo di salutarti. Non sono così lontano, però, e spero che avremo modo di vederci di tanto in tanto. Proprio non me la sentivo di venire a imballare tutta la mia roba, così ho scaricato questo peso sulle spalle di Tom.

Per quanto riguarda noi due, penso che non ci faccia per niente male, ma che, anzi, sia molto positivo, se non ci vediamo per un po'. Ho avuto il sospetto terribile che tu ti stessi stancando di me, per quanto io non mi sia certo stancato di te. Ti prego non metterti in testa che stia fuggendo da qualcosa. Al contrario, penso che Roma mi servirà a mettere i piedi in terra. Di certo Mongibello non ha avuto questo effetto su di me. Parte della mia inquietudine dipende da te, lo sai. Naturalmente la mia partenza non risolve nulla; mi servirà, però, a capire fino in fondo cosa provo per te. E per questo motivo che preferisco non vederti per un po', mia cara. Spero che tu capisca. Se non capisci, vuol dire che il destino ha deciso così. È un rischio che devo correre. È possibile che decida di andare a Parigi per un paio di settimane con Tom, dato che muore dalla voglia di andarci. Ho incontrato un pittore che si chiama Di Massimo che mi piace molto. È un tipo piuttosto anziano che mi darà molto volentieri lezioni per un compenso modesto. Dipingerò con lui nel suo studio.

La città è splendida con tutte le sue fontane sempre in funzione e con tutta questa gente in giro per strada giorno e notte. Che cambiamento da Mongibello! Ti sbagliavi su Tom. Ha intenzione di tornarsene quanto prima negli Stati Uniti, non so bene quando e non me ne importa molto, sebbene non sia poi così malaccio e dopo tutto nemmeno antipatico. Comunque lui non c'entra nulla in questa storia, spero che tu te ne renda conto.

Scrivi all'American Express di Roma finché non avrò un indirizzo definitivo. Appena trovo un appartamento te lo farò sapere. Nel frattempo tieni calda la casa e non smettere di far andare il frigorifero e, naturalmente... la macchina da scrivere. Sono terribilmente mortificato per Natale, tesoro, ma credo proprio che non sia il caso che ci si riveda così presto. Spero che non mi odierai per questo.

Con tutto il mio affetto,

Dickie

 

Tom non si era ancora tolto il berretto da quando era entrato in albergo. Alla reception aveva dato il passaporto di Dickie invece del suo, ma aveva notato che raramente negli alberghi controllavano la fotografia del passaporto. Generalmente si limitavano a ricopiare il numero che figurava sulla prima pagina. Aveva firmato il registro imitando la firma frettolosa e vistosa di Dickie con i ghirigori sulle iniziali R e G. Quando, più tardi, uscì per imbucare la lettera, entrò in una profumeria in una strada piuttosto distante e acquistò alcuni articoli per il trucco che, a suo avviso, avrebbero potuto tornargli utili prima o poi. Si divertì a chiacchierare con la commessa e le fece credere che stava comprando quella roba per la moglie che aveva perso il nécessaire da viaggio e che, in quel momento, era in albergo in preda al suo solito mal di stomaco.

Passò la serata allenandosi a imitare la firma di Dickie per gli assegni della banca. La rimessa mensile dagli Stati Uniti sarebbe arrivata fra meno di dieci giorni.

 

14

 

Il giorno seguente si trasferì all'Hotel Europa, un albergo di categoria media nelle vicinanze di via Veneto. L'Hassler era stato un momento di follia con il suo sfarzo sfrenato. Era il tipo di albergo per stelle del cinema ed era proprio il genere che Freddie Miles, o persone come lui che conoscevano Dickie, avrebbero scelto se fossero venuti a Roma.

In camera Tom ebbe immaginarie conversazioni con Marge, Fausto e Freddie. Marge era quella che aveva maggiori probabilità di venire a Roma, pensò. Le parlò come se fosse stato Dickie, nel caso che si fosse trattato di una conversazione telefonica, e come Tom, se l'avesse incontrata faccia a faccia. Avrebbe potuto venire a Roma, trovare l'albergo in cui stava e insistere per salire in camera. In quel caso avrebbe dovuto togliersi rapidamente gli anelli e i vestiti di Dickie e saltare nei suoi.

«Proprio non lo so,» le avrebbe detto con la sua voce naturale. «Sai bene come è lui... è come se avesse voglia di dare un taglio netto con tutto ciò che è stato. Mi ha detto che potevo usare la sua stanza per un po', la mia è così mal riscaldata... Oh, credo che sarà di ritorno entro un paio di giorni, oppure mi manderà una cartolina per farmi sapere che tutto va bene. È andato in un paese che non conosco con Di Massimo, per vedere certi affreschi in una chiesa.»

(«E non sai neppure se è andato verso nord o verso sud?»)

«Te l'ho già detto, non lo so. Verso sud, credo. Ma cosa ti serve saperlo?»

(«Proprio una bella sfortuna mancarlo per così poco, non ti pare? Almeno poteva lasciar detto dove andava!»)

«Hai ragione, gliel'ho fatto notare anch'io. Ho anche guardato in giro per la stanza in cerca di una cartina o di un'indicazione qualunque sul posto dove è andato. Te lo ripeto, mi ha telefonato tre giorni fa e mi ha detto che se volevo potevo venire a stare nella sua stanza.»

Era una buona idea allenarsi a saltare dentro e fuori i suoi vecchi panni, dato che questa prontezza camaleontica avrebbe potuto tornargli utile in qualche momento di emergenza. Tom si rese conto con stupore che stava già dimenticando l'antico timbro di voce di Tom Ripley. Chiacchierò con Marge finché il suono della propria voce non fu esattamente come lo ricordava.

La maggior parte delle volte, però, era Dickie che conversava a bassa voce con Freddie e con Marge oppure al telefono con la madre di Dickie, e poi con Fausto e con uno sconosciuto a una cena. Chiacchierava sia in italiano sia in inglese, tenendo accesa la radio portatile in modo da non insospettire il personale dell'albergo che, sapendo che il signor Greenleaf era solo, avrebbe potuto considerarlo un po' matto. A volte, se la radio trasmetteva una canzone che gli piaceva particolarmente, ballava da solo per la stanza, ma ballava nel modo in cui avrebbe ballato Dickie con una ragazza. Una volta, sulla terrazza da Giorgio aveva visto Dickie ballare con Marge, e poi anche al Giardino degli aranci a Napoli. Ballava con lunghe falcate un po' rigide, certo non era quello che si poteva definire un buon ballerino. Ogni attimo della sua nuova vita era per Tom un piacere sottile, sia che se ne stesse da solo in camera o che camminasse per le vie di Roma, abbinando il piacere di visitare la città alla ricerca di un appartamento di suo gusto. Era impossibile sentirsi solo o annoiato, pensò, fin tanto che era nel personaggio di Dickie Greenleaf.

All'American Express, dove passava a ritirare la posta, lo salutavano come signor Greenleaf. La prima lettera di Marge diceva:

 

Dickie,

è stata una bella sorpresa, non c'è che dire. Mi chiedo cosa ti sia preso, così di botto, a Roma o a San Remo, o dove diavolo. Tom è stato molto avaro di notizie, tranne quella che starà con te. Pensavo che se ne sarebbe tornato quanto prima in America. A rischio di essere indiscreta, ragazzo mio, ti dirò che quel tipo non mi piace affatto. Dal mio punto di vista, e di tutti quelli che lo conoscono, ti sta sfruttando fino all'osso. Se proprio hai voglia di fare un cambiamento radicale nella tua esistenza, liberati prima di tutto di lui, per l'amor del cielo. Va bene, forse non è omosessuale. Non è niente del tutto, il che è ancora peggio. Non è neppure abbastanza normale da avere una vita sessuale, di qualunque tipo, se capisci cosa intendo dire. Comunque non è di Tom che voglio parlare ma di te. Certo che posso sopportare qualche settimana senza di te, tesoro, e persino il Natale, per quanto preferisca non pensarci lasciando, come dici tu, che i sentimenti vengano alla superficie e si rivelino per quello che sono. Però è impossibile non pensare a te qui, perché ogni sasso, ogni angolo del paese mi parla di te. E in questa casa, poi, ovunque guardi c'è la tua impronta: la siepe che abbiamo piantato, il recinto che abbiamo iniziato a riparare senza mai arrivare in fondo, i libri che ho preso in prestito senza mai ridarteli. E poi la tua sedia accanto al tavolo. Questa è la cosa peggiore.

Tanto per continuare con le indiscrezioni, non voglio insinuare che Tom abbia intenzione di fare concretamente qualcosa contro di te, ma sono convinta che abbia una pessima influenza, per quanto indefinibile, su di te. Quando sei in sua presenza hai l'aria vagamente imbarazzata, come se ti vergognassi di lui, te ne eri reso conto? Hai mai provato ad analizzare questo comportamento? Durante le ultime settimane avevo avuto l'impressione che cominciassi ad aprire gli occhi, ma adesso sei di nuovo con lui e sinceramente, ragazzo mio, non so proprio cosa pensare. Se veramente non ti interessa che se ne vada prima o poi, per l'amor del cielo, mandalo via subito! Non potrà mai essere utile, né a te né a nessun altro, per fare chiarezza della situazione. In effetti non puoi negare che abbia invece tutto l'interesse a renderla sempre più confusa e torbida in modo da poter manovrare sia te sia tuo padre.

Grazie mille per la colonia, tesoro. La terrò da parte, almeno un po', per quando ci rivedremo. Non ho ancora fatto trasportare il frigorifero qui da me. Naturalmente te lo ridarò in qualunque momento tu ne abbia bisogno.

Forse Tom ti ha raccontato che Skippy ha tagliato la corda. Che ne dici se cercassi di catturare un geco e gli legassi un collarino con un guinzaglio intorno al collo? Devo decidermi a rifare l'intonaco del muro che sai prima che ammuffisca completamente e mi crolli addosso. Inutile dirlo, ma vorrei che tu fossi qui con me, tesoro.

Con tanto, tanto affetto, e scrivi!

Ti bacio,

Marge

 

c/o American Express

Roma

12 dicembre, 19..

Carissimi mamma e papà,

sono a Roma e sto cercando un appartamento, per quanto non abbia ancora trovato ciò che voglio, dato che qui gli appartamenti sono tutti o troppo grandi o troppo piccoli. Se è troppo grande, d'inverno bisogna chiudere tutte le stanze tranne una per poterlo riscaldare adeguatamente. Sto cercandone uno di dimensioni medie, e anche di prezzo medio da poter scaldare interamente senza spenderci un occhio della testa.

Spiacente di essere stato così discontinuo con la posta negli ultimi tempi. Spero che andrà meglio con la vita più tranquilla che conduco qui. Avevo bisogno di cambiare aria da Mongibello, come d'altra parte mi avete sempre detto voi, così ho chiuso baracca e burattini e sono venuto via. Può anche darsi che mi decida a vendere la casa e la barca. Ho incontrato un pittore straordinario, si chiama Di Massimo e ha accettato di darmi lezioni nel suo studio. Ho intenzione di lavorare come una formica per qualche mese e vedere come vanno le cose. Sarà un po' come un periodo di prova. Mi rendo conto che tutto questo non ti interessa, papà caro, ma dato che non fai che chiedermi come passo il mio tempo, non posso che dirti queste cose. Fino alla prossima estate ho intenzione di fare una vita molto ritirata, dedita allo studio.

A proposito di studio, perché non mi mandate gli ultimi cataloghi e dépliant della Burke-Greenleaf? Mi fa piacere tenermi al corrente di quello che fai anche tu, ed è parecchio tempo che non ne so più nulla.

Mamma cara, spero che tu non ti sia data troppo da fare per Natale. Direi proprio che non mi viene in mente nulla di cui possa avere bisogno. E tu come ti senti? Esci un po', di tanto in tanto? Vai a teatro, da qualche altra parte, e così via? Come sta zio Edward, adesso? Dagli i mici saluti e fatemi sapere di voi.

Affettuosamente,

Dickie

 

Tom rilesse la lettera e decise che c'erano troppe virgole, per cui la ricopiò diligentemente e la firmò. Una volta aveva avuto occasione di vedere una lettera che Dickie stava scrivendo, sulla sua macchina da scrivere, ai genitori, per cui conosceva lo stile. Sapeva che Dickie non ci metteva mai più di una decina di minuti a scrivere qualunque lettera. Se questa lettera era diversa dalle altre, pensò Tom, poteva esserlo soltanto perché era appena più affettuosa e calda del solito. Rileggendola per la seconda volta si sentì molto soddisfatto del suo sforzo. Lo zio Edward era un fratello della signora Greenleaf ricoverato in un ospedale dell'Illinois con un cancro da qualche parte. Tom l'aveva appreso leggendo l'ultima lettera indirizzata a Dickie dalla madre.

Pochi giorni più tardi era in volo per Parigi. Prima di partire da Roma aveva chiamato l'Inghilterra per sapere se c'era posta per un certo Richard Greenleaf. Non ce n'era. Atterrò a Orly verso le cinque del pomeriggio. L'ufficiale doganale mise il timbro sul passaporto dopo avergli gettato un'occhiata distratta per quanto Tom si fosse decolorato i capelli con uno shampoo all'acqua ossigenata e li avesse ondulati a forza usando della brillantina. Per rendere la sua immagine più credibile aveva anche cercato di imitare l'espressione accigliata e scontrosa che Dickie aveva in quella foto. Alloggiò in un albergo sul Quai Voltaire raccomandatogli da alcuni americani con i quali aveva scambiato quattro chiacchiere in un bar romano. L'albergo era in posizione ottima e soprattutto non era invaso da turisti americani. Tom uscì immediatamente per fare una passeggiata nella nebbiosa e gelida serata invernale. Camminò con il capo eretto e un radioso sorriso dipinto sul volto. L'atmosfera della città gli piaceva. Era proprio come gli era stata descritta tante volte: stradine tortuose, palazzi dalla facciata grigia e lucernari, un viavai rumoroso di macchine e di clacson e, dappertutto, vespasiani e colonnette con manifesti teatrali dai vivaci colori. Decise che, prima di visitare il Louvre o salire in cima alla Torre Eiffel, avrebbe lasciato che l'atmosfera della città gli entrasse piano piano nella pelle. Comprò il Figaro, sedette a un tavolino del Dôme e ordinò un fine à l'eau perché sapeva che era la bevanda preferita di Dickie quando era a Parigi. Il francese di Tom era molto limitato, anche quello di Dickie, però. Alcune persone dall'aspetto interessante lo fissarono attraverso la vetrata del caffè ma non entrarono a parlargli. Tom si aspettava che da un momento all'altro qualcuno si alzasse da uno dei tavoli vicini ed esclamasse: «Dickie Greenleaf! Ma sei proprio tu?»

Aveva fatto molto poco per cambiare il suo aspetto fisico, ma la sua espressione, Tom lo sapeva, era identica a quella di Dickie, ormai. Dickie aveva sempre quel sorrisetto terribilmente invitante, un sorrisetto pronto ad accogliere un vecchio amico o un innamorato, piuttosto che un estraneo. Aveva sempre quell'espressione tipica di Dickie quando era di buon umore, e Tom, adesso, era proprio di buon umore. Era a Parigi dopotutto! Splendido sedere in un famoso caffè e pensare a se stesso come Dickie Greenleaf per domani, domani l'altro e poi l'altro ancora! I gemelli preziosi, le camicie di seta bianca, i vecchi comodi abiti di tutti i giorni: la cintura di pelle con la fibbia di ottone, le vecchie scarpe sportive di cuoio marrone - del tipo reclamizzato su Punch, quelle che durano una vita intera - il vecchio giaccone di lana color senape con le tasche sbieche, erano tutti suoi adesso, tutti suoi e gli piacevano così tanto! E poi la stilografica nera con le iniziali in oro. E il portafogli di coccodrillo di Gucci, vecchio proprio al punto giusto per non essere volgare. E con tutto questo c'erano i soldi, un sacco di soldi.

Per la sera dopo era stato invitato a un party in Avenue Kléber da una coppia, una ragazza francese e un ragazzo americano, incontrati in un grande bar ristorante sul Boulevard Saint Germain. Al party c'erano trenta o quaranta persone, più o meno di mezza età, che se ne stavano rigidamente in piedi in un appartamento poco accogliente, nonché poco riscaldato. In Europa, decise Tom, il riscaldamento inadeguato doveva rappresentare una specie di segno di raffinatezza, come i martini senza ghiaccio in estate. A Roma si era trasferito in un albergo più costoso per riuscire ad avere una stanza riscaldata decentemente, ma poi si era accorto che quell'albergo, per quanto più costoso, era ancora più freddo dell'altro. Nel suo stile tetro e vecchiotto la casa era piuttosto raffinata, pensò Tom, con tanto di maggiordomo e cameriera. La tavola era imbandita con grandi vassoi di tartine al pâté en croûte, tacchino freddo e petits fours caldi. Il tutto era annaffiato da fiumi di champagne. Eppure la fodera del divano e le lunghe tende che oscuravano le finestre erano consunte per l'uso e per l'età, e sul pianerottolo, accanto all'ascensore aveva visto persino tracce di topi. Una mezza dozzina di ospiti ai quali era stato presentato avevano titoli nobiliari. Un americano informò Tom che il ragazzo e la ragazza che lo avevano invitato erano fidanzati ma che i genitori di lei non erano molto soddisfatti della cosa. C'era tensione nella sala e Tom si sforzò di dimostrarsi cordiale con tutti, persino con i più impettiti dei francesi ai quali poteva dire ben poco oltre: «C'est très agréable, n'est-ce pas?» Fece proprio del suo meglio, e lo sforzo gli fruttò un sorriso da parte della ragazza che l'aveva invitato. Si riteneva fortunato di trovarsi lì. Quanti americani, soli a Parigi, riuscivano a farsi invitare in una autentica magione francese dopo appena una settimana di permanenza in città? I francesi erano particolarmente lenti e riluttanti a invitare stranieri a casa loro, così gli avevano sempre detto. Nessuno degli americani presenti sembrò riconoscere il suo nome. Tom si sentì totalmente a suo agio, come mai si era sentito a un party prima di allora. Si comportò come aveva sempre desiderato comportarsi in un'occasione del genere. Era questa la nuova vita, la tabula rasa alla quale aveva pensato nel suo tragitto in nave verso l'Europa. Era esattamente così che aveva sognato: l'annullamento totale dei suoi trascorsi e del suo vecchio io, del Tom Ripley fatto di un passato sordido e stantio, per iniziare una nuova vita sotto spoglie totalmente diverse e migliori. Una signora francese e due degli americani presenti lo invitarono a loro volta ad altri party, ma Tom declinò gentilmente l'invito dando a tutti la stessa risposta. «Vi sono molto grato, ma lascio Parigi domani stesso.»

Non era prudente stringere legami troppo stretti con qualcuno per il momento, decise Tom. C'era pericolo che uno di loro conoscesse qualcuno che a sua volta fosse amico intimo di Dickie, qualcuno che avrebbe potuto incontrare al prossimo party.

Quando, verso le undici e un quarto, si accomiatò dalla padrona di casa e dai suoi genitori, ebbe l'impressione che questi fossero genuinamente spiacenti di vederlo andar via. Ma aveva deciso che per mezzanotte sarebbe andato a Notre Dame. Era la notte di Natale.

La madre della ragazza gli chiese nuovamente come si chiamasse.

«Monsieur Granelafe,» ripeté la ragazza per lei. «Deekie Granelafe. Vero?»

«Vero,» annuì Tom con un sorriso.

In fondo all'atrio gli venne in mente il party di Freddie Miles a Cortina. Il due dicembre. Era passato quasi un mese! Aveva pensato di scrivere a Freddie per dirgli che non sarebbe andato, poi gli era passato completamente dalla testa. Si chiese se Marge ci fosse andata. Freddie avrebbe trovato molto strano che lui non avesse scritto per spiegare la sua assenza. Sperò che almeno Marge lo avesse giustificato con Freddie. Doveva scrivergli immediatamente, decise. Nell'agendina di Dickie trovò un indirizzo di Freddie a Firenze. Era stato un errore, pensò Tom, ma non grave. Non doveva permettere che cose simili si ripetessero, però!

Uscì nell'oscurità e camminò in direzione dell'Arco di Trionfo, candido e illuminato. Era strano sentirsi così solo eppure così immerso in tutto ciò che lo circondava, così partecipe come si era sentito a quel party. Provò la stessa sensazione mentre se ne stava ai margini della folla che riempiva la piazza di Notre Dame. Impossibile pensare di riuscire a entrare in chiesa, ma gli amplificatori installati in giro portavano la musica in ogni angolo della piazza. Inni natalizi francesi, dei quali non conosceva il nome. Silent Night. Poi a un inno molto solenne fece seguito un canto gioioso. La melodia di voci maschili. Alcuni francesi, accanto a lui, si tolsero il cappello. Tom li imitò. Se ne stette così, fieramente eretto, con il viso compunto ma pronto a sorridere se qualcuno gli avesse rivolto la parola. Si sentì come si era sentito sulla nave, ma questa volta la sensazione fu molto più intensa. Era un giovane pieno di belle speranze e senza ombre scure sul suo passato. Era Dickie adesso. Dickie dal carattere gioviale e sereno, Dickie l'ingenuo con il sorriso sempre pronto per tutti e un biglietto da mille franchi per chiunque gli si avvicinasse. Proprio mentre lasciava il sagrato un vecchio gli chiese la carità e Tom gli diede un biglietto frusciante da mille franchi. Il viso del vecchio si aprì in un sorriso radioso.

Tom sentì i morsi della fame ma l'idea di andarsene a letto a pancia vuota gli fece quasi piacere. Avrebbe passato almeno un'oretta sul suo libro di italiano, decise, e poi sarebbe andato a dormire. Ma gli venne in mente che doveva cercare di ingrassare di due o tre chili poiché gli abiti di Dickie gli stavano un po' abbondanti e il suo viso era un po' troppo scavato rispetto a quello di Dickie. Si fermò quindi a un bar tabacchi e ordinò uno sfilatino al prosciutto e un bicchiere di latte caldo, solo perché l'unico altro cliente del bar beveva latte caldo in quel momento. Il latte era quasi insapore, puro e purificante, come doveva essere l'ostia consacrata sull'altare, pensò Tom.

Fece il viaggio di ritorno da Parigi pigramente, a piccole tappe, fermandosi una notte a Lione e un'altra ad Arles per visitare i luoghi dove Van Gogh aveva operato. Conservò il suo umore sereno malgrado il tempo terribile. Ad Arles la pioggia sferzata da un violento mistrale lo inzuppò fino alle ossa mentre cercava di scoprire i luoghi esatti dove Van Gogh si era appostato per dipingere i suoi paesaggi. Aveva comperato uno splendido libro di stampe di Van Gogh a Parigi, ma dovette rinunciare a tirarlo fuori a causa della pioggia, per cui fu costretto ad andare avanti e indietro in albergo per controllare gli angoli di visuale delle varie scene. Visitò anche Marsiglia e la trovò tediosa tranne la Cannebière, proseguì verso est in treno fermandosi un giorno a St. Tropez, Cannes, Nizza, Montecarlo. Tutti luoghi di cui aveva tanto sentito parlare e che trovò immediatamente familiari malgrado il fatto che la rigida temperatura invernale non fosse affatto propizia alle passeggiate e alle folle di turisti vocianti. Passò l'ultimo dell'anno a Mentone. Con l'immaginazione Tom riempì quei luoghi di una folla raffinata, uomini e donne in abito da sera che salivano e scendevano la scalinata del casinò di Montecarlo, altri in costumi da bagno a colori vivaci, altri ancora leggeri e brillanti come un acquerello di Dufy a passeggio sotto le palme lussureggianti del Boulevard des Anglais a Nizza. Folla: americani, inglesi, francesi, tedeschi, svedesi, italiani. Avventure galanti, delusioni amorose, liti, riconciliazioni, omicidi. La Costa Azzurra lo riempì di un'eccitatazione febbrile più di qualunque altro posto dove fosse mai stato. Eppure era così minuscola. Una piccola lingua di terra lungo il Mediterraneo con quei nomi che correvano uno dietro l'altro come in un filo di pietre preziose: Toulon, Fréjus, St. Rafael, Cannes, Nizza, Mentone. Poi San Remo.

Rientrato a Roma, il quattro gennaio, trovò due lettere di Marge. Avrebbe lasciato la casa il primo marzo, diceva. Non aveva ancora terminato la prima stesura del libro, ma ne avrebbe consegnato tre quarti corredato di illustrazioni all'editore americano che aveva mostrato interesse alla sua idea quando gli aveva scritto per presentargliela l'estate prima. Marge scriveva:

 

Quando pensi che ci rivedremo? Odio l'idea di rinunciare a un'altra estate in Europa dopo aver sopportato un lungo inverno ma credo proprio che tornerò a casa verso i primi di marzo. Sì, è proprio vero, ho nostalgia di casa. Caro, sarebbe splendido se potessimo imbarcarci insieme per tornare a casa. Ma per te esiste questa possibilità? No, non credo. Tu non hai intenzione di tornare negli Stati Uniti, neppure per una breve visita entro quest'inverno?

Pensavo di spedire tutte le mie cianfrusaglie (otto valigie, due bauli, tre scatoloni di libri e altre cosette varie!) per nave da Napoli e poi di passare da Roma a trovarti. Se ti va, potremmo risalire fino a Forte dei Marmi e Viareggio per rivedere ancora una volta, l'ultima, quei posti che ci sono tanto piaciuti. Non mi interessa sapere come sarà il tempo, anche se so già da adesso che sarà orrido. Non oso chiederti di accompagnarmi fino a Marsiglia a prendere la nave, ma che ne diresti se, invece, salpassi da Genova??? Rispondimi, caro!

 

La seconda lettera era più riservata e Tom sapeva perché; non le aveva scritto nulla, neppure una cartolina, per quasi un mese. La lettera diceva:

 

Ho cambiato idea circa la Riviera. Forse questo tempaccio umido o lo sforzo del libro mi hanno succhiato via tutte le energie. Comunque ho deciso di partire da Napoli con la Constitution che salperà il 28 febbraio. Sarà come essere in America non appena avrò traversato la passerella. Pensa, cucina americana, passeggeri americani, dollari e corse di cavalli. Tesoro, mi spiacerà molto non rivederti ma dal tuo silenzio deduco che tu non sei ancora pronto a incontrarmi, per cui lascia perdere e non pensarci più. Considerami già fuori della tua vita.

Naturalmente mi auguro di rivederti prima o poi, magari negli Stati Uniti o in qualche altra parte del mondo. Se ti saltasse in mente di fare una visitina a Mongy entro il 28 febbraio, sappi già da adesso che sarai il benvenuto.

Tua,

Marge

 

P.S. Ti rendi conto che non so neppure se sei ancora a Roma?

 

Tom immaginava il suo viso rigato di lacrime mentre scriveva. Ebbe l'impulso di scriverle una lettera molto affettuosa dicendole che era appena rientrato dalla Grecia e chiedendole se avesse ricevuto le due cartoline che le aveva mandato. Era molto più prudente però lasciare che partisse senza sapere bene dove si trovava, pensò Tom. Non le scrisse nulla.

L'unica cosa che lo preoccupava un po', ma neanche poi tanto, era l'eventualità che Marge venisse a cercarlo a Roma prima che riuscisse a trasferirsi in un appartamento privato. Gli americani benestanti non erano costretti a comunicare alla polizia la loro residenza, per quanto, secondo gli accordi per il permesso di soggiorno, fossero tenuti a comunicare ogni variazione di indirizzo. Tom aveva parlato con un americano residente a Roma che, pur avendo affittato un appartamento, non si era mai preoccupato di denunciarlo alla polizia che, da parte sua, non gli aveva mai dato noie. Se Marge fosse arrivata a Roma senza preavviso Tom aveva molti dei suoi vecchi vestiti pronti nell'armadio. L'unica cosa diversa dal punto di vista fisico erano i capelli, ma poteva sempre dire che si erano schiariti per il sole. No, non era veramente preoccupato. I primi tempi Tom si era divertito con una matita per gli occhi dato che le sopracciglia di Dickie erano più lunghe e appuntite, ma poi aveva smesso con questi trucchi per paura che si notassero troppo. Per imitare alla perfezione un altro essere umano, decise Tom, bisognava assumerne il carattere e la personalità in modo da alterare di conseguenza l'espressione del viso. Il resto sarebbe andato a posto da sé.

Verso il dieci di gennaio scrisse a Marge che era rientrato a Roma dopo una permanenza di tre settimane a Parigi da solo. Tom aveva lasciato Roma il mese prima dicendo che sarebbe andato a Parigi e da lì direttamente negli Stati Uniti, ma non lo aveva incontrato a Parigi. Per il momento non aveva ancora trovato un appartamento adatto a Roma, ma lo stava cercando e le avrebbe fatto sapere l'indirizzo non appena lo avesse trovato. La ringraziò calorosamente per il pacco natalizio. In effetti Marge gli aveva mandato il maglione bianco con la scollatura a V profilata di rosso che aveva sferruzzato e provato addosso a Dickie fin da ottobre, un libro di pittura quattrocentesca e un nécessaire da barba di pelle con le iniziali H. R. G. sul coperchio. Il pacco era arrivato il sei gennaio, e Tom non poté esimersi dal ringraziarla per paura che pensasse che non l'avesse ricevuto. In quel caso, considerandolo svanito nel nulla, si sarebbe messa sulle sue piste come un segugio. Le chiese anche se avesse ricevuto il suo pacco. L'aveva spedito da Parigi e probabilmente ci avrebbe messo parecchio tempo ad arrivare. Se ne scusò e scrisse:

Ho ricominciato a dipingere con Di Massimo e sono piuttosto soddisfatto. Anche tu mi manchi, ma se riesci a tener duro ancora un po' con il mio esperimento preferirei proprio non vederti ancora per qualche settimana (a meno che tu non vada davvero a casa a febbraio, cosa di cui dubito ancora!). Non è da escludersi che a quel punto sarai tu a non avere più voglia di vedere me. Saluta Giorgio e sua moglie, Fausto se c'è ancora e Pietro, giù al molo...

Era una lettera perfettamente in linea con lo stile di Dickie, vago e un po' tetro. Una lettera che non era né calda né scostante, una lettera che in fondo non diceva nulla.

In verità aveva trovato un appartamento in uno stabile piuttosto grande in via della Croce, vicino al Pincio, e aveva già firmato il contratto di affitto per un anno, sebbene non avesse nessuna intenzione di passare molto tempo a Roma, e tanto meno l'inverno. Però voleva una casa, un luogo dove ritornare, dopo tanti anni di vita randagia. Inoltre Roma era molto chic. Roma era parte della sua nuova vita. Voleva poter dire durante i suoi soggiorni a Majorca, ad Atene o al Cairo oppure ovunque si trovasse: «Sì, vivo a Roma. Ho preso un appartamento lì.» Era il modo di esprimersi di coloro che appartenevano agli ambienti mondani internazionali. In Europa si affittavano appartamenti con la stessa noncuranza con la quale in America si sarebbe preso un garage. Però voleva che il suo appartamento fosse elegante, anche se non aveva intenzione di invitarci molti ospiti. Non sopportava l'idea di metterci il telefono, neppure sotto falso nome. Alla fine decise che per lui sarebbe stato più sicuro averlo che non averlo, così lo fece mettere. L'appartamento era composto da un grande soggiorno, una camera da letto, una specie di studiolo, cucina e bagno. Era arredato in stile un po' barocco, ma questo era in armonia con il quartiere raffinato e con la vita rispettabile che aveva intenzione di condurre. L'affitto corrispondeva a circa centosettantacinque dollari al mese, riscaldamento incluso. In estate scendeva a centoventicinque dollari.

Marge scrisse una lettera estatica per comunicargli di aver ricevuto la splendida camicetta di seta da Parigi, che naturalmente non si era aspettata affatto e che le andava a pennello. Raccontava di aver invitato per il cenone di Natale Fausto e i Cecchi e il tacchino era stato assolutamente divino, ripieno di castagne e salsa di ribes, e poi avevano mangiato il pudding di prugne e via di questo passo. Insomma c'era proprio tutto, mancava solo lui. Cosa stava facendo adesso, a che pensava? Era felice? E poi se solo avesse fatto sapere dove stava, Fausto sarebbe passato a trovarlo andando a Milano, altrimenti poteva lasciare un messaggio all'American Express dicendogli dove incontrarsi.

Tom immaginò che tutta quell'euforia fosse dovuta al fatto che era convinta che Tom fosse partito per gli Stati Uniti da Parigi. Insieme alla lettera di Marge ne trovò una del signor Pucci nella quale questi gli comunicava di aver venduto tre pezzi del mobilio a Napoli per la somma di centocinquantamila lire. Adesso aveva un probabile cliente per la barca, un certo Anastasio Martino di Mongibello che aveva promesso di versare l'anticipo entro una settimana. La casa, invece, non sarebbe stata venduta fino al sopraggiungere dell'estate, cioè finché non arrivava la prima ondata di americani. Detratta la percentuale del dieci per cento per Pucci, la vendita dei mobili ammontava a ben duecentodieci dollari. Tom festeggiò l'avvenimento nel miglior night club di Roma dove consumò una cena superba in raffinata solitudine a lume di candela, a un tavolo apparecchiato per due. Non aveva nessun problema a mangiare o ad andare a teatro da solo. Anzi, approfittava dell'occasione per concentrarsi nel personaggio di Dickie Greenleaf. Spezzava il pane nello stesso modo di Dickie, portava la forchetta alla bocca con la sinistra proprio come faceva Dickie. Quella sera si concentrò sui ballerini e sugli altri ospiti del locale con un'attenzione talmente assorta e benevola che il cameriere dovette tossicchiare discretamente un paio di volte per riuscire ad attrarre la sua attenzione. Degli estranei gli fecero un cenno di saluto da un tavolo vicino; Tom li riconobbe: li aveva incontrati al party di Natale a Parigi. Rispose con un cenno di saluto con la mano, li ricordava molto bene, ricordava persino il loro nome. Ma evitò di guardarli di nuovo per il resto della serata. La coppia, però, lasciò il locale prima di lui e si fermò al suo tavolo per scambiare quattro chiacchiere.

«Tutto solo?» chiese l'uomo. Aveva l'aria un po' brilla.

«Sì, ogni anno ho un appuntamento in questo posto con me stesso,» rispose Tom. «Festeggio un certo anniversario.»

L'americano annuì senza capire troppo e Tom si rese conto che stava cercando disperatamente qualcosa di intelligente da ribattere, e che si sentiva a disagio, come ogni provincialotto americano, quando si trova davanti a un atteggiamento sobrio, pacato e cosmopolita, fatto di denaro e abiti di classe anche se questi abiti sono indossati da un altro americano.

«Lei vive a Roma, vero?» chiese la moglie. «Sa, non riusciamo a farci venire in mente il suo nome, ma ci ricordiamo molto bene di lei a quel party la notte di Natale.»

«Greenleaf,» rispose Tom: «Richard Greenleaf.»

«Oh, ma certo!» esclamò lei sollevata. «Ha un appartamento da queste parti?»

Tom vide che si preparava a prendere nota mentalmente dell'indirizzo.

«Per il momento sto ancora in albergo, ma ho intenzione di trasferirmi quanto prima in un appartamento. Cioè, appena l'architetto avrà finito di arredarlo. In questo momento sto all'Eliseo, perché non mi date un colpo di telefono quando vi capita?»

«Ma certo, ci farebbe molto piacere. Fra tre giorni andiamo a Majorca, ma abbiamo un sacco di tempo prima della partenza!»

«Sarà un piacere rivedervi,» rispose Tom compunto. «Buonasera!»

Era di nuovo solo, libero di rifugiarsi nelle sue fantasie. Avrebbe dovuto aprire un conto in banca a nome di Tom Ripley, decise, e versarci un centinaio di dollari ogni tanto. Dickie Greenleaf aveva due banche, una a Napoli e un'altra a New York e in ciascuna di queste aveva un conto di circa cinquemila dollari. Avrebbe potuto aprire il conto a suo nome versandoci un paio di migliaia di dollari più le centocinquantamila lire della vendita del mobilio di Mongibello. Dopo tutto aveva due persone a cui badare!

 

15

 

Visitò il Campidoglio e Villa Borghese, esplorò a fondo il Foro Romano e prese sei lezioni di italiano sotto falso nome da un vecchio del quartiere. Dopo la sesta lezione Tom decise che il suo italiano aveva raggiunto il livello di quello di Dickie. Ricordava a memoria parecchie frasi usate da Dickie in diverse occasioni e solo adesso si rendeva conto che erano sbagliate. Per esempio, una sera che aspettavano Marge da Giorgio aveva detto: «Ho paura che non c'è arrivata.» Al contrario avrebbe dovuto usare il congiuntivo. Si usava sempre il congiuntivo dopo un'espressione di timore. Dickie non aveva l'abitudine di usare il congiuntivo ogni volta che era necessario. Pedantemente Tom si trattenne dall'imparare l'uso corretto del congiuntivo.

Acquistò tendaggi di velluto rosso cupo per il soggiorno dato che non poteva sopportare le tende che aveva trovato. Quando aveva chiesto alla signora Buffi, moglie del custode, se poteva trovargli una sarta che facesse quel lavoro, la donna si era offerta di farlo lei stessa. Gli aveva chiesto duemila lire in tutto, poco più di tre dollari, e Tom la costrinse ad accettarne cinque. Poi comprò parecchi accessori per rendere più caldo e accogliente l'appartamento, malgrado il fatto che non invitasse mai nessuno, tranne un giovane americano, molto attraente ma non molto sveglio, incontrato al Caffè Greco. Il ragazzo gli aveva chiesto indicazioni per raggiungere l'Hotel Excelsior e dato che era sulla strada di casa sua, Tom lo invitò su a bere qualcosa. L'intenzione di Tom era di far colpo su di lui per un'oretta e quindi di salutarlo per sempre e ci riuscì. Gli offrì il suo brandy migliore, gli fece vedere l'appartamento chiacchierando amabilmente dei piaceri della vita a Roma e quindi lo salutò. Il giovane partiva l'indomani per Monaco.

Tom evitò con cura tutti gli americani residenti a Roma per paura che lo invitassero ai loro party e che si aspettassero di essere ricambiati. Gli piaceva, però, chiacchierare con i clienti americani e italiani del Caffè Greco e con gli studenti alla mensa di via Margutta. Disse il suo nome soltanto a un pittore italiano di nome Carlino incontrato in un'osteria di via Margutta, gli disse anche che dipingeva e che studiava pittura con un anziano pittore che si chiamava Di Massimo. Se mai la polizia avesse fatto delle ricerche sulle attività di Dickie Greenleaf a Roma, anche parecchio tempo dopo la scomparsa di Dickie, questo pittore italiano avrebbe sicuramente testimoniato di aver incontrato Dickie Greenleaf in persona nel mese di gennaio. Carlino non conosceva Di Massimo, ma Tom glielo descrisse con tanta vivacità e precisione che non avrebbe più potuto dimenticarlo.

Era solitario ma non si sentiva solo. Era una sensazione molto simile a quella provata la notte di Natale a Parigi, era la sensazione di trovarsi su una ribalta con tutto il mondo che lo guardava, la sensazione di dover stare costantemente sul chi vive, di essere messo alla prova ogni minuto, perché il minimo errore gli sarebbe stato fatale. Ma era assolutamente certo che non avrebbe fatto errori. Questa certezza dava alla sua esistenza una indefinibile, deliziosa atmosfera rarefatta di purezza simile a quella, riteneva Tom, che deve provare un attore quando sale in scena, conscio di saper recitare una parte meglio di chiunque altro. Era se stesso eppure non era se stesso. Si sentiva libero e senza macchia, per quanto controllasse ogni minima azione. Adesso, però, non si stancava più a praticare quell'esercizio per parecchie ore di fila. Non aveva più bisogno di riposarsi quando era solo. Ormai era Dickie fin dal primo momento, da quando si alzava dal letto e andava a lavarsi i denti, tenendo il gomito proteso all'esterno come faceva lui. Era Dickie quando succhiava l'uovo alla coque fino all'ultima goccia, era Dickie quando invariabilmente scartava la prima cravatta tirata fuori dall'armadio e optava per la seconda. Era riuscito persino a dipingere un quadro nello stesso stile di Dickie.

Per la fine di gennaio Tom pensò che ormai Fausto dovesse essere già passato per Roma, anche se Marge non ne parlava nella sua ultima lettera. Marge scriveva presso l'American Express circa una volta alla settimana. Gli aveva chiesto se aveva bisogno di calzini o di sciarpe, poiché aveva parecchio tempo libero per lavorare a maglia, quando smetteva di lavorare al libro. Non trascurava mai di raccontare qualche aneddoto divertente su qualche conoscenza comune del paese, in modo che Dickie non potesse pensare che si stava rodendo il fegato per lui, anche se era evidente che invece era proprio così e che non aveva nessuna intenzione di partire in febbraio per gli Stati Uniti senza fare un ultimo, disperato tentativo di rivederlo in carne e ossa. Da qui i suoi sforzi indefessi nello scrivere lettere fiume e nello sferruzzare calzini e sciarpe che, Tom ne era certo, sarebbero arrivati comunque, anche se lui non rispondeva alle sue lettere. Quelle lettere erano ripugnanti per lui. Gli faceva orrore persino il contatto fisico con loro, tanto che dopo averle lette rapidamente le stracciava subito e le gettava nella spazzatura.

Infine si decise a scrivere:

 

Per il momento ho rinunciato all'idea di prendere un appartamento a Roma. Di Massimo ha intenzione di andare a passare alcuni mesi in Sicilia. Credo che andrò con lui e che da li proseguirò per qualche altra destinazione. I miei progetti sono molto vaghi, ma hanno il pregio di non essere vincolanti, e questo è ciò di cui ho bisogno in questo momento.

Non mandarmi nulla, Marge, non mi serve nulla, credimi. Ti auguro buona fortuna con Mongibello.

 

Aveva già il biglietto per Majorca. Treno fino a Napoli, poi traghetto da Napoli a Palma per la notte del 31 gennaio. Si era comprato due valigie da Gucci, il miglior negozio di Roma; una era di morbida pelle di antilope, l'altra di tela grezza con rifiniture in cuoio naturale. Entrambe portavano le iniziali di Dickie. Si era sbarazzato della più malandata delle sue valigie e aveva messo l'altra in un armadio con dentro i suoi vecchi abiti, per ogni evenienza. La barca affondata a San Remo non era stata ritrovata. Tom aveva controllato i giornali tutti i giorni cercando la notizia.

Una mattina, mentre faceva la valigia, il campanello d'ingresso suonò e Tom pensò che si trattasse di un errore o di qualche venditore ambulante. Non aveva messo il nome sulla porta e aveva detto al custode di non voler seccature di nessun tipo. Il campanello suonò di nuovo e Tom continuò a ignorarlo senza interrompere le sue pigre operazioni. Gli piaceva preparare le valigie e ci metteva moltissimo tempo: un'intera giornata, a volte anche due. Deponeva con cura ogni abito di Dickie nella valigia e di tanto in tanto interrompeva per provarsi allo specchio una camicia particolarmente bella o una giacca. In quel momento era, appunto, davanti allo specchio intento a provarsi una camicia sportiva con piccoli cavallucci marini bianchi e azzurri che non aveva ancora indossato fino a quel momento.

Ebbe il sospetto che potesse trattarsi di Fausto. Era proprio da lui scovarlo a Roma e fargli una sorpresa. Era ridicolo, cercò di rassicurarsi. Ma le mani erano madide di sudore mentre andava ad aprire. Si sentiva le gambe molli e l'assurdità di quella sensazione, unita al terrore di svenire e di farsi trovare accasciato al suolo, gli fece aprire la porta con tutte e due le mani, anche se di pochi centimetri soltanto.

«Salve!» lo salutò la voce americana dalla semioscurità del pianerottolo. «Dickie? Sono Freddie!»

Tom fece un passo indietro spalancando la porta. «Dickie è... Ma perché non entri? È uscito un attimo, ma dovrebbe rientrare a momenti.»

Freddie Miles entrò in casa guardandosi avidamente intorno. Girava quel suo viso sgradevole e cosparso di lentiggini da tutte le parti. Come diavolo aveva fatto a trovarlo, si chiese Tom, togliendosi furtivamente gli anelli e facendoli scivolare in tasca. C'erano altri indizi pericolosi? Si chiese guardandosi rapidamente in giro.

«Stai con lui?» gli chiese Freddie fissandolo con un'espressione attonita che rendeva il suo viso particolarmente sciocco e insulso.

«Oh, no! Sono qui solo per qualche ora,» rispose Tom togliendosi con aria noncurante la camicia con i cavallucci marini, sotto la quale portava ancora la sua. «Dickie è andato fuori a pranzo. Credo che abbia parlato di Otello. Penso che rientri verso le tre, non più tardi.» Il custode, o sua moglie, dovevano aver fatto entrare Freddie indicandogli anche la porta esatta. Forse gli avevano anche detto che il signor Greenleaf era in casa. Probabilmente Freddie aveva detto di essere un amico di Dickie. Adesso doveva far uscire Freddie evitando di incontrare la signora Buffi che lo salutava sempre con uno squillante: «Buongiorno, signor Greenleaf!»

«Ci siamo già incontrati a Mongibello, vero?» chiese Freddie. «Tu devi essere Tom, pensavo che saresti venuto anche tu a Cortina.»

«Non mi è stato possibile, grazie lo stesso però. È stato divertente?»

«Oh, splendido. Ma cosa gli è preso a Dickie?»

«Non ti ha scritto? Ha deciso di passare l'inverno a Roma. Mi aveva detto che ti aveva scritto.»

«Neanche una parola... a meno che non abbia scritto all'indirizzo di Firenze. Io, però, ero a Salisburgo e lui lo sapeva.» Freddie si era appoggiato al lungo tavolo di Tom spiegazzando la bella coperta di seta verde. Gli sorrise. «Marge mi ha detto che si era trasferito a Roma ma che non aveva l'indirizzo tranne il recapito all'American Express. È stato solo per un dannato colpo di fortuna che ho scoperto dove si era cacciato. Ieri sera, al Greco ho incontrato un tizio che lo conosce e sapeva dove abitava. Ma che razza di idea è questa di...»

«Chi era?» lo interruppe Tom. «Un americano?»

«No, un italiano. Un ragazzo molto giovane.» Adesso Freddie stava fissando le sue scarpe. «Hai le stesse scarpe che portiamo anche io e Dickie. Sono praticamente indistruttibili, vero? Io ho comprato le mie otto anni fa a Londra.»

Erano le scarpe sportive di Dickie. «Queste, invece, arrivano dagli Stati Uniti,» tagliò corto Tom. «Posso offrirti qualcosa da bere o preferisci cercare di raggiungere Dickie da Otello? Sai dov'è, vero? È inutile che tu stia qui ad aspettare perché in genere non torna mai prima delle tre quando va fuori a pranzo. D'altra parte devo uscire anch'io fra un po'.»

Freddie, intanto, era andato verso la camera da letto e si era fermato di botto vedendo le valigie sul letto. «È appena rientrato da qualche viaggio o sta partendo?» gli chiese girandosi.

«Sta partendo. Pensavo che Marge te l'avesse detto. Sta andando in Sicilia per un po'.»

«Quando?»

«Domani o dopodomani al massimo. Non so di preciso.»

«Dimmi un po', ma cosa gli ha preso a Dickie negli ultimi tempi?» chiese Freddie aggrottando la fronte. «Cos'è quest'idea di questa specie di ritiro spirituale?»

«Dice che ha lavorato troppo l'inverno scorso,» rispose Tom in tono casuale. «Adesso vuole un po' di intimità e di tranquillità. Però, per quanto ne sappia io, è ancora in ottimi rapporti con tutti, Marge compresa.»

Freddie sorrise di nuovo sbottonandosi il grosso giaccone sportivo. «Di sicuro non resterà in buoni rapporti con me se mi tira un altro paio di bidoni. E poi sei proprio certo che sia in buoni rapporti con Marge? Ho avuto l'impressione, da alcune cose che mi ha detto lei, che abbiano litigato invece. Anzi, avevo pensato che fosse stato questo il motivo per cui non era venuto a Cortina.» Freddie lo fissò con uno sguardo colmo di attesa.

«Per quel che ne so io, no.» Si diresse con aria decisa verso l'armadio dell'ingresso per prendere la giacca, in modo che Freddie capisse che stava per uscire. Si rese conto all'ultimo momento che la giacca di flanella grigia del completo che indossava era facilmente riconoscibile, nel caso che Freddie avesse già visto quell'abito. Di conseguenza prese una delle sue giacche e il suo vecchio cappotto, appesi in un angolino dell'armadio. Le spalle del cappotto mostravano chiaramente che era stato appeso al gancio per settimane senza essere toccato. Quando si girò Tom trovò Freddie con lo sguardo fisso sul braccialetto d'argento, con la targhetta di identificazione, che portava al braccio sinistro. Era il braccialetto di Dickie che Tom aveva trovato in fondo a una scatola piena di carte e che Dickie non aveva mai portato in tutto il periodo che era stato a Mongibello. Lo sguardo di Freddie gli rivelò chiaramente che lui invece lo conosceva bene. Senza badarci Tom infilò il soprabito.

Ora Freddie lo guardava con un'espressione diversa, vagamente sospettosa. Tom sapeva cosa stava passandogli per la testa e si irrigidì fiutando il pericolo. Non sei ancora al sicuro, si disse. Devi ancora uscire da questa casa.

«Pronto?» chiese Tom.

«Tu vivi qui. Non è vero?»

«No!» protestò Tom con un sorriso. Il brutto viso cosparso di lentiggini lo fissò da sotto il vistoso cespuglio di capelli rossi. Se solo fossero riusciti a uscire senza incontrare la signora Buffi, pensò Tom. «Andiamo.»

«Dickie ti ha coperto con i suoi gioielli, a quanto vedo.»

Tom non riuscì a ribattere nulla di spiritoso, per cui disse piattamente: «Oh, è solo un prestito. Dickie si era stancato di portarlo così me l'ha dato per un po'.» Intendeva il braccialetto, naturalmente, ma si rese conto che aveva addosso anche il fermacravatte d'argento con le iniziali di Dickie. Si era comprato quel fermacravatte da solo. Sentì la diffidenza e l'aggressività di Freddie Miles montare nel corpaccione sgraziato come un'ondata di calore chiaramente percepibile nella stanza. Freddie era un bestione capace di picchiare se solo sospettava che qualcuno fosse un finocchio, soprattutto se le condizioni erano propizie come in quel momento. Tom ebbe paura del suo sguardo.

«Sono pronto, andiamo,» dichiarò Freddie cupo, alzandosi. Andò verso la porta e si girò di botto verso di lui. «Otello è quel ristorante non lontano dall'Inghilterra?»

«Sì, Dickie dovrebbe essere lì dall'una circa.»

Freddie annuì. «Piacere di averti incontrato di nuovo,» esclamò in tono sbrigativo, e uscì chiudendosi la porta alle spalle.

Tom imprecò a bassa voce, quindi riaprì la porta e ascoltò lo scalpiccio rapido dei piedi di Freddie che correva giù per le scale. Voleva essere certo che Freddie uscisse senza parlare di nuovo con uno dei Buffi. Poi udì distintamente la voce di Freddie: «Buongiorno, signora.» Tom si sporse sopra la ringhiera. Tre piani sotto di lui intravedeva solo un pezzo del braccio di Freddie. Stava parlando con la custode adesso. La voce della donna lo raggiunse più distintamente.

«...No, solo il signor Greenleaf,» diceva, «no, no, da solo... signor chi?... no signore, non mi pare che sia uscito affatto oggi. Però potrei sbagliarmi, non le pare?» Rise.

Tom strinse la ringhiera come se avesse avuto fra le mani il collo di Freddie. Poi udì nuovamente i passi su per le scale. Rientrò in casa e chiuse silenziosamente la porta. Poteva dichiarare che non viveva lì, che Dickie era da Otello oppure che non sapeva dove fosse, ma ormai era evidente che Freddie non si sarebbe fermato finché non avesse trovato Dickie. Oppure lo avrebbe trascinato giù di sotto e avrebbe chiesto alla signora Buffi chi fosse.

In quel momento Freddie bussò alla porta. La maniglia girò, ma la porta era chiusa a chiave. Tom allungò la mano verso un pesante portacenere di cristallo. Era talmente grosso che fece fatica a prenderlo in mano e dovette tenerlo per il bordo. Cercò di concedersi qualche altro secondo per pensare: c'era un altro modo di uscirne? E cosa ne avrebbe fatto del corpo? Inutile, non riusciva a connettere. Non c'era altra soluzione. Aprì la porta con la mano sinistra. La destra, che teneva il portacenere, era nascosta dietro la schiena.

Freddie entrò come un razzo. «Senti un po', ti dispiacerebbe spiegarmi...»

Il bordo ricurvo del portacenere lo colpì proprio in piena fronte. Freddie lo fissò stupefatto. Poi le ginocchia cedettero e il suo grosso corpo sgraziato si abbatté al suolo, come un toro colpito in mezzo agli occhi da una martellata. Tom chiuse la porta con un calcio. Poi colpì Freddie alla nuca. Colpì ancora e poi ancora, terrorizzato all'idea che potesse fingere e che improvvisamente una di quelle braccia poderose lo afferrasse alle gambe e lo tirasse in terra. Quindi mirò alla testa con un colpo disperato e questa volta il sangue zampillò copioso. Tom imprecò, poi corse in bagno, prese un asciugamano e lo mise sotto la testa di Freddie. Cercò di sentire il battito del cuore. Era debolissimo e sembrò arrestarsi nel momento stesso in cui tastò il polso, come se la semplice pressione delle dita fosse stata sufficiente a fermare quell'ultimo soffio di vita. Tom ascoltò per accertarsi che non ci fosse nessuno sul pianerottolo. Immaginò la signora Buffi con il sorriso timido che aveva sempre quando aveva l'impressione di disturbare. Ma non udì nessun suono. D'altra parte non c'erano stati rumori eccessivi, pensò Tom, né quando aveva colpito con il portacenere né quando Freddie era caduto al suolo. Tom gettò un'occhiata alla mole massiccia di Freddie stesa a terra e si sentì invadere da un'ondata di disgusto e di impotenza.

Erano solo le dodici e quaranta, mancavano parecchie ore prima che venisse buio. Si chiese se Freddie fosse atteso da qualcuno in qualche posto. Magari in macchina, proprio sotto il portone! Frugò nelle tasche del morto e trovò un portafogli. Il passaporto americano era nella tasca interna del giaccone. Insieme c'erano alcune monete italiane e un portachiavi. Da un anello pendevano due chiavi con inciso il nome FIAT. Rovistò nel portafogli alla ricerca del libretto della macchina e lo trovò quasi subito; erano segnati tutti i dati necessari: FIAT 1400, colore nero, decappottabile, 1955. Se era nei dintorni non gli sarebbe stato difficile trovarla. Ispezionò tutte le tasche, incluse quelle del panciotto nocciola, per vedere se trovava lo scontrino di qualche garage, inutilmente. Poi andò alla finestra e non poté trattenere un sorriso. Era così semplice! La macchina era lì: una decappottabile nera, parcheggiata sull'altro lato della strada praticamente davanti al portone del palazzo. Non poteva esserne certo ma gli sembrò che all'interno non ci fosse nessuno.

Improvvisamente seppe cosa avrebbe fatto. Si mise subito all'opera per preparare la messinscena adatta. Tirò fuori dal mobile bar le bottiglie di gin e di vermouth, poi ci ripensò e prese invece quella di pernod, a causa del suo odore più penetrante. Mise le bottiglie sul tavolo e preparò un martini in un bicchiere, aggiunse alcuni cubetti di ghiaccio e ne bevve un sorso, quanto bastava per sporcare il bicchiere. Poi versò un altro martini, andò accanto al corpo senza vita e schiacciò le dita inerti intorno al bicchiere. Quindi lo depose sul tavolo. Controllò la ferita e vide che aveva smesso di sanguinare e che l'asciugamano aveva impedito che il sangue macchiasse il pavimento. Poi puntellò Freddie contro il muro e gli versò un po' di gin giù per la gola. Incontrò qualche difficoltà in questa operazione e parte del liquore andò a finire sullo sparato della camicia, ma Tom era certo che la polizia italiana non avrebbe fatto un test accurato per controllare quanto alcool Freddie avesse effettivamente ingerito. Per un attimo Tom indugiò con lo sguardo sul viso sfigurato di Freddie, ma fu subito colto da un conato di vomito e dovette rapidamente distogliere lo sguardo per non svenire.

Ci mancava solo quello, pensò Tom mentre arrancava attraverso la stanza verso la finestra, svenire proprio adesso! Aggrottò la fronte scorgendo la grossa macchina nera dall'altra parte della strada e respirò a pieni polmoni la fresca aria invernale. No, non sarebbe svenuto, si intimò! Il pernod per tutti e due. Altri due bicchieri pieni di liquore e con le impronte digitali di entrambi. E i portacenere dovevano essere traboccanti! Freddie fumava sigarette Chesterfield. Poi la via Appia. Uno di quegli angolini scuri in mezzo ai resti romani. Su molti tratti della via Appia l'illuminazione mancava totalmente. Il portafogli di Freddie sarebbe scomparso. Movente del delitto: rapina!

Aveva parecchie ore a disposizione, ma non smise di darsi da fare finché la stanza non ebbe assunto l'aspetto voluto: dozzine di mozziconi di Chesterfield e di Lucky Strike nei portacenere, un bicchiere di pernod a pezzi e metà del suo contenuto sparso sulle piastrelle del bagno. La cosa più curiosa era che, mentre preparava quella scena caotica con tanta pignoleria, pensava già alle lunghe ore che avrebbe avuto davanti a sé per ripulire tutto, diciamo fra le nove di quella sera, ora in cui presumibilmente sarebbe stato ritrovato il corpo, e la mezzanotte quando la polizia avrebbe potuto prendere la decisione che valeva la pena fargli una visitina. Non era da escludersi, infatti, che qualcuno fosse al corrente che Freddie Miles aveva intenzione di far visita a Dickie Greenleaf quel giorno. Sapeva, comunque, che per le otto avrebbe già ripulito tutto dato che, secondo la sua versione dei fatti, Freddie se ne era andato verso le sette (come d'altra parte sarebbe avvenuto sul serio) e Dickie Greenleaf era un tipo piuttosto preciso e ordinato, anche dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo! Il motivo di tutta quella messinscena era che questa costituiva la prova, soprattutto di fronte a se stesso, della versione dei fatti che avrebbe dato e alla quale doveva credere lui per primo per poterla rendere credibile agli altri.

Poi avrebbe lasciato inalterati i suoi progetti di partenza per Napoli e per Palma alle dieci e mezzo del mattino seguente, a meno che la polizia non decidesse di trattenerlo. Se nel giornale del giorno seguente avesse letto che il corpo era stato ritrovato, sarebbe stato suo preciso dovere presentarsi al commissariato per dichiarare che Freddie Miles era stato a casa sua fino a pomeriggio inoltrato, pensò Tom. Improvvisamente fu colpito dal pensiero che un dottore avrebbe potuto accertare che Freddie era morto molte ore prima. Eppure era assolutamente impossibile sbarazzarsi di Freddie immediatamente, non in pieno giorno. No, la sua unica speranza era che il corpo non venisse ritrovato per talmente tanto tempo da rendere impossibile l'identificazione esatta dell'ora del decesso. Era importantissimo che riuscisse a portar Freddie fuori di lì senza essere visto da qualcuno, anche se sarebbe stato facile fingere che stava aiutando l'amico ubriaco fradicio ad andarsene a casa, in modo da poter dichiarare che Freddie se ne era andato verso le quattro o le cinque del pomeriggio.

Le ore di attesa fino al momento opportuno lo terrorizzarono al punto che per un attimo temette di non farcela. Quella montagna sul suo pavimento! E poi lui non aveva avuto nessuna intenzione di ucciderlo. Era stato talmente inutile! Se solo Freddie non fosse stato quel maledetto ficcanaso indiscreto che era. Tom fu colto da un tremito e si accasciò in poltrona tormentandosi le nocche. Avrebbe voluto uscire e sgranchirsi le gambe, ma aveva paura a lasciare il corpo lì per terra. E poi doveva fare qualche rumore se voleva rendere credibile la storia che lui e Freddie se ne erano stati seduti lì per ore a bere e a chiacchierare. Accese la radio e la sintonizzò su una stazione che trasmetteva musica leggera. Almeno poteva bere qualcosa. Faceva parte della messinscena. Preparò dell'altro martini con il ghiaccio.

L'alcool servì solo a intensificare la ridda di pensieri che lo tormentava. Fissò a lungo il corpo pesante di Freddie avvolto nel giaccone sportivo ormai tutto spiegazzato sotto di lui e che non aveva né la forza né la volontà di raddrizzare, pensando a quanto triste, stupida, goffa, pericolosa e inutile fosse stata quella morte e, perché no, quanto sleale nei confronti di Freddie! Naturalmente si poteva biasimare anche Freddie per questo. Uno sciocco idiota ed egoista che si era permesso di guardare con disprezzo uno dei suoi migliori amici, e Dickie di certo lo era, solo perché sospettato di devianza sessuale. Tom non poté trattenere una risatina a quell'espressione: devianza sessuale. E dov'era il sesso? E la devianza poi? Guardò ancora Freddie e sibilò amaramente con voce sorda: «Freddie Miles, sei vittima della tua sporca mente contorta.»

 

16

 

Decise di aspettare fino alle otto perché verso le sette c'era sempre un gran viavai di gente nel palazzo. Alle otto meno dieci scese a pianterreno per accertarsi che la signora Buffi non si aggirasse ancora nell'atrio, che la porta della sua casa fosse chiusa e che non ci fosse nessuno in macchina per quanto quel pomeriggio avesse già fatto un salto a controllare che quella fosse la macchina di Freddie. Gettò il giaccone di Freddie sul sedile posteriore, poi tornò di sopra, circondò col braccio il corpo del morto, strinse i denti e sollevò. Vacillò cercando di equilibrare quel peso inerte sulla spalla. Aveva già provato a sollevarlo nel pomeriggio, tanto per essere sicuro di farcela, e gli era sembrato di non riuscire a fare più di tre passi con la mole massiccia di Freddie che lo schiacciava al suolo. Adesso Freddie non pesava meno, eppure Tom sapeva che era arrivato il momento di tirarlo fuori di lì. Lasciò che i piedi del morto strisciassero per terra, in modo da sollevarsi di quella parte del peso, e prese a scendere faticosamente le scale. Aveva fatto a malapena una rampa che dovette fermarsi per evitare di incontrare qualcuno uscito da un appartamento del piano di sotto, quindi riprese la sua irregolare discesa. Aveva calzato il berretto di Dickie sulla fronte di Freddie, in modo da nascondere i capelli incrostati di sangue. Nell'ultima ora Tom aveva bevuto alcuni bicchieri di gin e di pernod, ubriacandosi quel tanto che gli permettesse di agire senza essere inceppato nei movimenti ma con la spericolatezza necessaria per quell'ingrata e rischiosa fase. Il primo pericolo, e anche il più grave, era di crollare sotto il peso di Freddie prima di riuscire a trascinarlo in macchina. Aveva giurato a se stesso di non fermarsi neppure un istante durante la discesa. Mantenne il suo proposito. Non incontrò nessuno né sulle scale né uscendo dal portone. Durante l'attesa Tom aveva vissuto angosciosamente tutto quello che avrebbe potuto succedergli nel tragitto: la signora Buffi, o il marito, avrebbero potuto uscire dal loro appartamento nel momento esatto in cui lui arrivava in fondo alle scale, oppure avrebbe potuto svenire ed essere ritrovato riverso sulle scale schiacciato dalla mole massiccia di Freddie, oppure non sarebbe più riuscito a issarselo sulle spalle nel caso che avesse dovuto metterlo giù per prender fiato. Aveva vissuto ogni scena con tale morbosa intensità che il fatto di essere arrivato al portone senza nessuno dei terribili intoppi immaginati lo convinse che stava agendo sotto l'influsso di qualche misteriosa forza protettrice che gli faceva superare agevolmente ostacoli altrimenti insormontabili.

Gettò un'occhiata alla strada attraverso il portone d'ingresso di vetro: fuori era tutto normale. Un uomo camminava sul marciapiede opposto ma in quella strada c'era sempre qualcuno che passava. Aprì con una mano la prima delle due porte poi, trattenendola col piede, trascinò dall'altra parte le gambe di Freddie. Fra le due porte si aggiustò il corpo passandolo da una spalla all'altra. Per fare questa operazione dovette chinare il capo e far scivolare il peso sopra il collo inclinato. Per un attimo si sentì invadere dalla fierezza per la sua forza insospettata ma la sensazione fu subito travolta dal dolore lancinante alla spalla che aveva sopportato il peso fino a quel momento. Il braccio era troppo stanco persino per trattenere il corpo nelle sue oscillazioni. Serrò i denti e scese i pochi gradini fra le due porte urtando penosamente contro i pilastri laterali.

Un uomo, sul marciapiede, rallentò il passo come intenzionato a fermarsi, poi cambiò idea e prosegui per la sua strada.

Se qualcuno si fosse avvicinato, pensò Tom, gli avrebbe alitato sul viso una tale zaffata di pernod da evitargli di chiedere cosa diavolo stesse succedendo. Maledetti loro, maledetti loro, maledetti loro! brontolò Tom fra i denti mentre incespicava nel gradino del marciapiede. Passanti, innocenti passanti. Adesso erano saliti a quattro. Solo due di loro, però, l'avevano degnato di uno sguardo. Si fermò per lasciar passare un'automobile poi, con pochi passi frettolosi, fu alla macchina e puntellò il corpo contro lo sportello cacciando la testa dentro il finestrino aperto in modo da poterlo afferrare dopo aver ripreso fiato. Si guardò in giro alla debole luce del lampione soffermandosi sull'ingresso del suo palazzo.

Proprio in quell'attimo il ragazzino più piccolo dei Buffi corse fuori dal portone e attraversò la strada guardando in direzione di Tom. Subito dopo un uomo passò a meno di un metro dalla macchina gettando una rapida occhiata sorpresa alla figura piegata di Freddie che, pensò Tom, aveva una posa piuttosto naturale. Sembrava, infatti, che Freddie stesse proteso come per parlare con qualcuno all'interno della macchina, eppure, Tom ne era certo, c'era qualcosa in lui non del tutto naturale. Quello, però, era uno dei vantaggi dell'Europa. Nessuno si sognava di darti una mano, nessuno si immischiava negli affari altrui. Se solo fosse stato in America...

«Ha bisogno di aiuto?» gli chiese una voce in italiano.

«Oh, no, grazie,» replicò Tom con una giuliva voce impastata, da perfetto ubriaco. «So dove abita,» aggiunse poi in un inglese inintelligibile.

L'uomo sorrise comprensivo e continuò per la sua strada. Un uomo baffuto alto ed esile con un leggero impermeabile, senza cappello. Tom sperò che non ricordasse né lui né la macchina. Di nuovo sollevò il peso di Freddie, spalancò lo sportello e cercò di sistemare il corpo sul sedile accanto al guidatore. Poi fece il giro della macchina, infilò i guanti di pelle marrone che aveva portato con sé, e infilò le chiavi nel cruscotto. La macchina si mise in moto al primo tentativo. Era fatta ormai! Percorse via Veneto, superò la Biblioteca americana, traversò piazza Venezia passando proprio sotto il balcone di Mussolini, accanto al mastodontico monumento a Vittorio Emanuele, giù per il Foro Romano e intorno al Colosseo. Un giro turistico di Roma che ormai Freddie non era più in grado di apprezzare. Era come se Freddie stesse dormendo lì seduto al suo fianco, come spesso succede quando qualcuno ti vuole invano far vedere il paesaggio.

La via Appia Antica gli si srotolò davanti, grigia e antica alla debole luce dei rari lampioni. Resti tenebrosi di tombe e monumenti si ergevano su entrambi i lati della strada, stagliandosi contro il cielo non completamente scuro. Incrociò una sola macchina. Alla gente non piaceva percorrere quella strada triste e irregolare in una cupa sera di gennaio. C'era solo qualche coppietta qua e là. Una macchina lo superò. Tom cominciò a guardarsi intorno alla ricerca del posto adatto. Freddie meritava un nascondiglio coi fiocchi, dietro una bella tomba. Davanti a sé vide un ciuffo di alberi dietro i quali, senza dubbio, si nascondeva una tomba o per lo meno le rovine di una tomba. Tom uscì dalla carreggiata e spense le luci di posizione. Attese un attimo guardando la strada deserta in entrambe le direzioni.

Freddie era ancora floscio e inerte come un pupazzo di gomma. Ma cos'erano tutti quei racconti sul rigor mortis? Trascinò il corpo senza delicatezza, con la faccia per terra, fino al ciufio di alberi, dietro le rovine. Era un monumento piuttosto piccolo, alto poco più di un metro, con un accenno di arco, ma si vedeva che doveva essere quanto era rimasto in piedi di una tomba patrizia. Più che sufficiente per quel porco, decise Tom. Tom lanciò un'imprecazione contro la mole ributtante e, senza rendersene neppure conto, sferrò un calcio al mento. Era stanco, stanco fino al punto di piangere, nauseato dalla vista di Freddie Miles. Aveva l'impressione che l'attimo liberatorio nel quale avrebbe potuto finalmente girargli le spalle e andarsene non sarebbe venuto mai. C'era ancora quel dannato giaccone! Tornò verso la macchina per prenderlo. Il terreno era solido e asciutto, notò, non c'era pericolo di lasciare impronte compromettenti. Gettò il giaccone accanto al corpo, si girò rapidamente e si diresse verso la macchina, incerto sulle gambe quasi insensibili per la spossatezza. Salì di nuovo in macchina e puntò verso Roma.

Mentre guidava strofinò la parte esterna della portiera con la mano protetta dal guanto in modo da cancellare qualunque impronta avesse lasciato inavvertitamente sulla macchina prima di infilare i guanti. Parcheggiò accanto all'American Express, proprio davanti al night club Florida e scese abbandonando le chiavi nel cruscotto della macchina. Aveva ancora con sé il portafogli di Freddie per quanto avesse trasferito tutto il denaro italiano nel suo e avesse bruciato con cura un biglietto da venti franchi svizzeri e alcuni scellini austriaci su in casa. Estrasse il portafogli dalla tasca e passando accanto a un tombino lo lasciò cadere nella fessura.

C'erano solo due particolari che non quadravano, pensò, mentre camminava verso casa: un ladro avrebbe preso sicuramente il giaccone dato che era di ottima qualità e in buone condizioni, e anche il passaporto, che invece era rimasto nella tasca del giaccone. Ma non tutti i ladri sono logici, e tanto meno quelli italiani. E, dopotutto, non tutti gli assassini sono logici. Tornò con la mente alla sua conversazione con Freddie: «...un italiano. Un ragazzo molto giovane...» Qualcuno doveva averlo seguito fino a casa, pensò, dato che non aveva mai rivelato a nessuno il suo indirizzo. Arrossì per la vergogna e l'indignazione. Forse due o tre garzoni dei negozi lì attorno sapevano dove viveva, ma un garzone non frequenta un posto come il Caffè Greco. Di nuovo si sentì arrossire per la vergogna. Immaginò il volto olivastro, ansimante, che lo seguiva fino a casa e spiava l'oscurità per vedere quale finestra si accendeva dopo che era entrato nel portone. Tom si strinse nel soprabito e affrettò il passo come se stesse cercando di sfuggire a un morboso, appassionato inseguitore misterioso.

 

17

 

Il mattino seguente Tom uscì prima delle otto per comperare i giornali. Non riportavano nulla. Era anche possibile che non lo trovassero per parecchi giorni, pensò. Non era probabile che qualcuno volesse fare il giro di una tomba come quella dietro la quale aveva nascosto Freddie. Si sentiva sicuro e fiducioso dal punto di vista psicologico, ma fisicamente stava malissimo. Sentiva i postumi della sbronza, quel genere terribile di strascico che induce a interrompere qualunque cosa si faccia; dovette persino smettere di lavarsi i denti per andare a controllare sull'orario se il treno partiva effettivamente alle dieci e mezzo o alle dieci e tre quarti. Partiva alle dieci e mezzo.

Per le nove era già pronto, completamente vestito e con l'impermeabile steso sul letto. Aveva già parlato alla signora Buffi per dirle che si sarebbe assentato per tre settimane, forse anche di più. La custode si era comportata come al solito e non aveva parlato del visitatore americano del giorno prima. Questo dimostrava che in fondo la donna non ci pensava affatto per cui decise da parte sua di lasciar perdere e di non parlarne. Filava tutto liscio. Cercò di superare quella sensazione molesta con la razionalità, dato che in fondo non aveva bevuto molto. Sapeva bene che non era altro che autosuggestione e che i postumi della sbronza esistevano solo perché aveva deciso di fingere di essersi ubriacato con Freddie. Ora che non ce n'era più bisogno la finzione gli prendeva inesorabilmente la mano.

Suonò il telefono e Tom rispose con voce arcigna: «Pronto.»

«Signor Greenleaf?» chiese in italiano la voce.

«Sì.»

«Qui parla la stazione di polizia numero ottantatré. Lei è amico di un americano che si chiama Fredderick Miilays?»

«Frederick Miles? Sì, certo,» rispose Tom.

La voce nervosa dall'altra parte del filo lo informò brevemente che il corpo senza vita di Fredderick Miilays era stato rinvenuto quella mattina sulla via Appia Antica. Il signor Miilays gli aveva per caso fatto visita il giorno prima?

«Sì, proprio così.»

«A che ora precisamente?»

«Da mezzogiorno circa fino alle... le cinque, forse le sei di sera. Non ne sono certo.»

Poteva essere così gentile da rispondere ad alcune domande?... No, non era necessario che si scomodasse a venire fino alla centrale. Sarebbero venuti loro da lui. Gli andavano bene le undici?

«Sarò felice di rendermi utile, se posso,» rispose Tom in tono giustamente ansioso. «Ma non potreste venire immediatamente? Devo uscire di casa al più tardi alle dieci.»

La voce grugnì debolmente e disse che non era sicuro, ma che avrebbe fatto il possibile. Però se non fossero arrivati prima delle dieci era indispensabile che non uscisse di casa.

«Va bene,» accondiscese Tom e riagganciò.

Maledetti, gli avrebbero fatto perdere il treno e di conseguenza anche la nave. Non vedeva l'ora di andarsene, di cambiare aria per un po'. Ripensò a tutto quello che avrebbe detto alla polizia. Era talmente semplice che ne fu quasi irritato. Non era altro che la pura verità. Avevano bevuto, Freddie gli aveva raccontato di Cortina, avevano chiacchierato del più e del meno e poi Freddie se ne era andato, un po' brillo, forse, ma certamente di ottimo umore. No, non sapeva dove fosse diretto. Aveva avuto l'impressione che avesse un appuntamento galante per la serata.

Tom tornò in camera da letto e mise la tela alla quale stava lavorando negli ultimi giorni sul cavalletto. I colori sulla tavolozza erano ancora umidi dato che li aveva tenuti in un recipiente sotto l'acqua in cucina. Mescolò dell'altro azzurro con il bianco e cominciò a ritoccare il cielo grigio pallido. Il quadro ricalcava fedelmente lo stile di Dickie con i suoi marroni rossicci, i bianchi brillanti; rappresentava i tetti e le case di Roma visti dalla sua finestra. Il cielo era l'unica licenza che si era preso dato che il cielo invernale di Roma era talmente plumbeo che persino Dickie avrebbe dovuto rinunciare a farlo del suo favorito blu elettrico per ripiegare su quel grigio-azzurro, pensò Tom. Aggrottò la fronte proprio come faceva Dickie quando dipingeva.

Il telefono squillò di nuovo. «Maledizione!» brontolò Tom mentre sollevava la cornetta.

«Pronto, sono Fausto!» gorgogliò la voce esuberante dall'altra parte del filo. «Come stai?»

«Oh, Fausto! Bene, bene, grazie! Oh scusa,» e continuò in italiano imitando la risata un po' assente di Dickie. «Stavo cercando di dipingere... solo cercando però.» Era un tentativo a mezza strada fra la voce assorta di Dickie in una mattinata di lavoro appassionante e la voce smarrita di Dickie che ha appena appreso di aver perso un amico come Freddie.

«Mangiamo insieme?» chiese Fausto. «Il mio treno parte alle quattro e un quarto.»

Tom bofonchiò imitando Dickie: «Sto partendo per Napoli. Sì, fra venti minuti!» Se solo fosse riuscito a sfuggire a Fausto non avrebbe avuto nessun bisogno di riferirgli della chiamata della polizia. La notizia del ritrovamento del corpo di Freddie non sarebbe apparsa sul giornale fino al pomeriggio, se non dopo.

«Ma io sono proprio qui, a Roma! Sono alla stazione in questo momento! È lontana casa tua?» esclamò Fausto ridendo.

«Ma come hai avuto il mio numero di telefono?»

«Ma senti un po'! Ho chiamato l'ufficio informazioni. Mi hanno risposto che avevi un numero riservato, ma io ho raccontato alla ragazza una storia lunghissima su una lotteria che avevi appena vinto a Mongibello. Non so se mi ha creduto, ma avevo un tono così solenne! Pensa, le ho raccontato che avevi vinto una casa, una mucca e persino un frigorifero! Ho dovuto richiamarla tre volte. Ma alla fine ha ceduto. Allora, Dickie, dove si trova casa tua?»

«Non si tratta di questo. Se solo non dovessi prendere il treno pranzerei volentieri con te, ma...»

«E va bene, vuol dire che ti aiuterò a portare i bagagli! Dimmi l'indirizzo e passo a prenderti in taxi!»

«Non c'è tempo. Perché non ci vediamo alla stazione, invece, fra circa mezz'ora? Devo prendere il treno delle dieci e mezzo per Napoli.»

«Okay!»

«Come sta Marge?»

«Oh, sempre innamorata di te!» esclamò Fausto con una risata fragorosa. «Hai intenzione di vederla adesso che vai a Napoli?»

«Non credo. Ci vediamo fra poco, Fausto. Sarà meglio che mi sbrighi adesso. A più tardi.»

«A più tardi, Dickie! Ciao,» e riappese.

Quando avrebbe visto i giornali del pomeriggio, pensò Tom, avrebbe capito perché non si era fatto vivo alla stazione, oppure avrebbe pensato che si erano mancati per un pelo. Ma senza dubbio entro mezzogiorno Fausto avrebbe visto i giornali, e certamente questi avrebbero dato molto risalto all'assassinio di un americano sulla via Appia. Dopo il colloquio con la polizia avrebbe preso un altro treno per Napoli, dopo le quattro, in modo da non correre il rischio di incontrare Fausto in stazione. Quindi avrebbe aspettato a Napoli la nave successiva per Majorca.

Sperava solo che Fausto non riuscisse a farsi dare anche l'indirizzo dall'ufficio informazioni e che decidesse di passare a trovarlo prima delle quattro. Sperò soprattutto che non gli arrivasse fra i piedi mentre c'era la polizia.

Tom cacciò un paio di valigie sotto il letto e chiuse l'altra nell'armadio dell'ingresso. Non voleva che la polizia sapesse che stava per lasciare la città. Ma perché era diventato così nervoso, adesso? Forse qualche amico di Freddie sapeva che avrebbe cercato di rintracciarlo e ne aveva parlato alla polizia, tutto qui! Tom prese un pennello e lo mise nel barattolo della trementina ad ammorbidirsi. Non voleva mostrare alla polizia di essere eccessivamente sconvolto per la morte di Freddie e anche se era evidentemente pronto per uscire, dipingere un po' gli avrebbe dato un'aria più disinvolta. Dopo tutto era amico di Freddie, ma non amico intimo.

La signora Buffi fece passare i poliziotti alle dieci e mezzo. Tom li guardò arrivare dalla tromba delle scale. Non si erano fermati a farle nessuna domanda. Rientrò ad attenderli in casa. La stanza era impregnata dell'odore penetrante di trementina.

Erano in due: un funzionario anziano in divisa e un agente molto più giovane. Il funzionario anziano lo salutò educatamente e gli chiese di mostrargli il passaporto. Tom glielo diede e questi guardò attentamente la fotografia, molto più attentamente di quanto avesse fatto chiunque fino a quel momento. Tom si preparò al peggio, ma non successe nulla. Il funzionario gli restituì il passaporto con un sorriso. Era basso e di mezza età, simile a migliaia di altri uomini italiani di mezza età, con folte sopracciglia grigie, e grossi baffi cespugliosi. Non aveva l'aria di essere né particolarmente intelligente né sciocco.

«Come è stato ucciso?» chiese Tom.

«Colpito alla testa e alla nuca con un oggetto contundente,» rispose il funzionario, «e quindi derubato. Pensiamo che fosse ubriaco. In che stato era quando ha lasciato casa sua ieri?»

«Oh, bene... in un certo senso... Certo abbiamo bevuto un po', tutti e due. Abbiamo bevuto alcuni martini e del pernod.»

Il funzionario prese nota sul taccuino anche dell'ora di arrivo e di partenza di Freddie, cioè fra mezzogiorno e le sei.